In foto ci sono sette uomini disposti a semicerchio, le barbe lunghe e i vestiti tipici dei talebani. Hanno i palmi delle mani rivolti verso l’alto. Stanno pregando. «Ecco il nuovo direttore generale di Afghan Film. Quello era il mio ufficio, quello era il mio fiore». Parole e foto sono racchiuse in un tweet di Sahraa Karimi, l’ormai ex direttrice dell’organizzazione cinematografica statale di Kabul, la Afghan Film Organization, o semplicemente Afghan Film. Lei, 36 anni, dal 2019 a poche settimane fa è stata la prima donna a ricoprire quell’incarico, ma il 15 agosto è dovuta fuggire. Sia perché nel nuovo Afghanistan dei talebani non c’è più spazio per le presenze femminili nei luoghi pubblici, figurarsi in quelli di comando. Sia perché, come figura di spicco della Kabul sotto controllo Usa, rischiava di rimanere vittima della vendetta talebana. E così è scappata.
The New Afghan Film Director General.
This was my office, that was my flower. pic.twitter.com/mryIcg1QZy
— Sahraa Karimi/ صحرا كريمي (@sahraakarimi) September 29, 2021
Sahraa Karimi, una voce libera in Afghanistan
Di famiglia afghana, Karimi è nata e cresciuta a Teheran, dove i genitori si erano trasferiti prima che nascesse. In Iran ha trascorso i suoi primi 17 anni e ha vissuto e fatto sue tutte le tradizioni persiane. Un anno prima della maggiore età, però, il trasferimento a Bratislava, città in cui si è laureata e ha ottenuto un dottorato in cinema: «Nel momento in cui sono arrivata in Slovacchia ho tagliato i legami con tutto ciò che avevo prima, dalla cultura alle tradizioni. Ho smesso di celebrare le festività importanti, ma sono sempre rimasta molto attaccata alla mia famiglia». Sono poi arrivati i primi riconoscimenti: Light Breeze, un documentario girato nei suoi anni universitari, ha vinto il più prestigioso premio cinematografico slovacco, il Slnkto v siet. E lì è arrivato il momento di cambiare ancora.

«Quando ho finito l’università nel 2013 ho deciso di trasferirmi in Afghanistan. Non so neanche perché: non ci ho mai vissuto, lì ci sono le mie origini ma sono molto più a mio agio con l’Iran e la sua lingua», ha detto in un’intervista del 2019 al Teheran Times. «Non avevo intenzione di girare subito un film, volevo prima conoscere meglio la mia cultura: la lingua, le abitudini, i problemi sociali, l’economia… tutto», ha aggiunto. Un percorso lungo. «Per quasi quattro anni ho semplicemente osservato e preso appunti, e per due anni ho lavorato con l’Unicef. Per poter viaggiare e conoscere le diverse facce della realtà afghana dovevo lavorare con un’organizzazione internazionale. Da sola, e per giunta da donna, sarebbe stato pericoloso». Da quegli appunti, poi, ha scritto una storia: il suo lavoro Afghan Woman behind The Wheel ha vinto 25 premi in tutto il mondo.
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Sahraa Karimi tra Venezia e l’impegno civile
Il suo nome inizia a circolare nei giri giusti e il suo lavoro le porta altre soddisfazioni: nel 2019 l’esordio al Festival del Cinema di Venezia con Hava, Maryam, Ayesha, un film su tre donne in cui si tratta il tema dell’aborto in Afghanistan, in gara nella sezione Orizzonti. In quei giorni le viene assegnato anche l’incarico più prestigioso della carriera, la direzione della Afghan Film Organization. Unica donna a candidarsi, è anche la prima a dirigere l’ente in oltre 50 anni: nonostante la chiusura avvenuta durante il primo governo talebano, Afghan Film esiste infatti dal 1968.
Ma Karimi non ha limitato il suo impegno solamente alla macchina da presa: nel 2020 è stata l’organizzatrice delle proteste contro l’abbattimento, voluto dall’amministrazione di Kabul, del famoso Cinema Park, costruito negli Anni 50. Una scelta definita «catastrofica» per la storia e la cultura della città, ma comunque eseguita dalle autorità nel novembre 2020. Nell’occasione Karimi, che si trovava nel cinema, fu portata via di forza dalla polizia per permettere l’abbattimento dell’edificio: la foto di lei in lacrime davanti alle ruspe è diventata virale sui social media.
L’appello di Sahraa Karimi a non tacere sull’Afghanistan
Poi, improvvisamente, tutto è cambiato ancora una volta. I talebani sono rientrati a Kabul il 15 agosto scorso senza trovare opposizioni, e insieme ad altre migliaia di civili, anche Karimi ha deciso di lasciare il Paese. Salita frettolosamente su un aereo per Kiev, ha poi raggiunto Bratislava. «Sto bene», ha assicurato sui social. Due giorni prima, con i talebani a ridosso della capitale, ha però scritto una lunga lettera alla comunità cinematografica mondiale: «I talebani hanno massacrato il nostro popolo, rapito molti bambini, venduto donne, torturato e ucciso uno dei nostri amati attori, assassinato uno dei nostri poeti storici, assassinato il capo della cultura e dei media del governo, hanno impiccato pubblicamente alcuni dei nostri uomini, hanno disperso centinaia di migliaia di famiglie. Abbiamo bisogno di voi, non voltateci le spalle».

In occasione dell’ultimo Festival di Venezia ha tenuto un panel sull’Afghanistan e sui pericoli per gli artisti locali: «Poco prima della caduta di Kabul stavo producendo un secondo documentario, e per la prima volta un film afghano è stato presentato a Cannes. Tutto questo si è fermato improvvisamente, in poche ore. Gli archivi ora sono sotto controllo dei talebani e i registi indipendenti hanno visto svanire il proprio lavoro. So che avete visto Schindler’s list, una cosa del genere è successa a noi il 15 agosto», ha detto. Lo scorso 8 settembre ha anche ricevuto – insieme ad altre 10 donne afghane – una nomina per il Premio Sakharov per la libertà di pensiero, un riconoscimento dell’Unione europea per «la loro lotta coraggiosa per l’uguaglianza e i diritti umani».
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Nel frattempo, in attesa di altri eventi pubblici (ha tenuto una conferenza sull’Afghanistan di recente anche a Parigi), Karimi continua la sua battaglia sui social, soprattutto Instagram e Twitter. Con la speranza di poter tornare presto a fare il proprio lavoro in patria. Ma anche con la consapevolezza che potrebbe volerci troppo tempo.