Hanno iniziato a chiudere una dietro l’altra dopo un passato glorioso. Acciaierie, fabbriche di automobili, aziende meccaniche, metallurgiche e siderurgiche sono state schiacciate da fallimenti inaspettati o hanno scelto di spostarsi altrove. Alterando il tessuto socio-economico degli Stati Uniti. Negli Anni 80, la ruggine accumulata sul core business dell’industria pesante statunitense era ormai così evidente e diffusa che fu coniato un termine apposito per riferirsi a questo fenomeno, tanto inedito quanto preoccupante e localizzato nel nord-ovest del Paese, nella regione compresa tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi. La Rust Belt, ovvero la cintura della ruggine, indicava, e indica tuttora, il declino economico, lo spopolamento e il decadimento urbano dovuti alla contrazione del settore industriale dell’immensa area incastonata tra la parte occidentale dello Stato di New York e l’Illinois settentrionale, che attraversa la Pennsylvania, la Virginia Occidentale, l’Ohio, l’Indiana e il Michigan, toccando anche lo Iowa orientale, il Wisconsin e il Minnesota. La crisi del settore manifatturiero, la delocalizzazione produttiva, il boom del terziario: sono tanti i fattori che hanno sgretolato uno dei pilastri fondanti dell’economia Usa. Oggi alcune città schiacciate dalla globalizzazione sono però riuscite ad adattarsi ai cambiamenti dei tempi, puntando sui servizi e sull’high-tech. Altre invece continuano a vivere nel limbo che le condurrà probabilmente a una lenta ed inevitabile morte.

Come le imprese Usa stanno investendo nella Rust Bell
Fino agli Anni 50 quest’area ora depressa era soprannominata Manufacturing Belt, cintura industriale, e della ruggine non c’era neppure l’ombra. Quando sempre più industrie hanno deciso di trasferirsi nel sud-est degli Stati Uniti, o addirittura in Asia e nei Paesi in via di sviluppo alla ricerca di costi di produzione inferiori, si sono generati fallimenti a catena, impoverimenti urbani, spopolamento e tracolli economici. Giusto per capire la gravità del fenomeno, senza il salvataggio statale del 2009, due delle tre grandi case automobilistiche Usa, GM e Chrysler, avrebbero potuto cessare di esistere. Eppure la situazione della regione potrebbe presto cambiare. Nel gennaio 2022 Intel ha annunciato la costruzione di un nuovo impianto di chip all’avanguardia da 20 miliardi nell’Ohio. General Motors spenderà 7 miliardi di dollari in impianti di veicoli elettrici nel Michigan. Ford ha previsto 11,4 miliardi di dollari in tre importanti impianti dedicati ai veicoli elettrici e batterie nel Kentucky e nel Tennessee. Rolls-Royce ha messo sul tavolo 600 milioni di dollari per rinnovare il suo stabilimento di Indianapolis, il più grande investimento che la società abbia mai fatto negli Stati Uniti. I vantaggi offerti dall’area non mancano e vanno dalle infrastrutture già esistenti alla forza lavoro con una lunga esperienza alle spalle. Washington potrebbe dunque puntare sulla cintura della ruggine per smarcarsi definitivamente dalla Cina, facendo rinascere il suo cuore industriale proprio nella Rust Belt, nel tentativo di sfuggire alle prossime crisi delle catene di approvvigionamento globali.

La crisi dell’industria pesante cinese
Se gli Stati Uniti devono fare i conti con la Rust Belt, anche la Cina deve fronteggiare qualcosa di molto simile. Negli Anni 90, il nord-est della Repubblica Popolare, in particolare le province di Liaoning, Jilin e dello Heilongjiang (Dongbei come le chiamano i cinesi), ovvero il bastione dell’industria pesante statale, ha subito gli effetti della massiccia riforma delle imprese statali avallata da Deng Xiaoping. La Politica di Riforma e di Apertura ha provocato un’escalation di fallimenti su larga scala di aziende, nonché il licenziamento di 30 milioni di tute blu. Nel 2022, quella che una volta era tra le regioni più urbanizzate del Paese ha assunto a tutti gli effetti i connotati di una Rust Belt. Basta guardare i numeri: nel 1978 la quota del Pil generato dalla Cina nordorientale costituiva circa il 14 per cento del Pil nazionale. Nel 1990 quella fetta si era ridotta all’11 per cento per toccare nel 2018 appena il 6 per cento. Nel 2020, le economie di Liaoning, Heilongjiang e Jilin sono cresciute rispettivamente dello 0,6, dell’1 e del 2,4 per cento, molto al di sotto o solo leggermente al di sopra dell’espansione complessiva del Pil del Paese, pari al 2,3 per cento. C’è chi attribuisce il rallentamento allo strapotere delle imprese statali inefficienti, veri e propri zombie, che vengono mantenute in vita solo dagli investimenti del governo. Altri fanno però notare che la causa è da ricercare altrove, ad esempio nella concentrazione delle risorse statali nelle regioni meridionali della Cina, culle dell’high-tech nazionale, con il conseguente calo della domanda di industrie pesanti e licenziamenti a cascata dei lavoratori. Né Washington né Pechino hanno la bacchetta magica per nascondere i rispettivi talloni di Achille delle Rust Belt. La loro grande sfida consisterà nell’adattare queste aree all’economia del XXI secolo. Intanto la ruggine che si accumula in queste due regioni sta corrodendo i due “imperi” dall’interno.