Una nuova guerra su larga scala tra Russia e Ucraina? La riconquista dei Paesi Baltici? O è tutto un bluff? Cosa vuole davvero la Russia, dopo che Vladimir Putin ha messo nero su bianco la richiesta che la Nato ponga la parola fine alla sua espansione verso Est? Difficile dirlo. Anche se la bozza del documento inviata dal ministero degli Esteri russo a Washington non promette nulla di buono, visto che toni, contenuti e tempistica fanno pensare al fatto che il Cremlino abbia già preso le sue decisioni. Non è stato però raggiunto ancora il punto di non ritorno e la Casa Bianca deve fare adesso le sue mosse, che possono ancora riportare quiete in uno scenario dove non si può escludere nulla. O quasi. Dato che comunque la Russia non si sognerà di invadere Paesi appartenenti all’Alleanza atlantica e Joe Biden, soprattutto dopo il passo indietro appena fatto in Afghanistan, non invierà certo truppe nel Donbass. Resta da vedere in ogni caso quale sarà la tattica di Putin.

Putin e l’annessione della Crimea del 2014
Negli ultimi 20 anni alla guida della Federazione russa il presidente ha preferito stare sui terreni di guerra in misura limitata, ad eccezione di quello interno della Cecenia e del Donbass, cercando di ottenere con azioni militari puntuali il massimo del profitto. L’operazione dell’annessione della Crimea nel marzo 2014 è da questo punto di vista esemplare. Ed è stata la risposta al cambio di regime a Kiev, dove Stati Uniti e Unione europea avevano avallato la rivoluzione contro il presidente Victor Yanukovich, lasciando il lavoro sporco ai gruppi paramilitari a Maidan. I primi ad agganciarsi a quella che nell’aprile dello stesso anni il nuovo governo filoccidentale ucraino aveva avviato come operazione antiterrorismo, per riportare ordine nei territori separatisti nel sudest del Paese, e che poi si è tramutata in un conflitto vero e proprio che dura ancora adesso. Dall’estate del 2014 Putin ha fornito assistenza alle repubbliche di Donetsk e Lugansk, sufficiente per congelare la guerra e le posizioni.

La Georgia e la rivoluzione delle rose
È stato lo stesso schema utilizzato nel 2008 in Georgia, quando in agosto il presidente Mikhail Saakhasivili ha scatenato l’attacco per riportare sotto il controllo di Tbilisi le regioni indipendentiste di Ossezia del sud e Abkhazia e ha provocato la reazione russa. Che il primo ordine di bombardare le postazioni dei peacekeeper russi a Tskhivakli sia partito dalla Georgia lo ha confermato successivamente anche Bruxelles con la commissione guidata dall’ambasciatrice svizzera Heidi Tagliavini. Mosca non aspettava altro, dopo mesi di provocazioni. Anche la Georgia, come l’Ucraina, aveva l’ambizione di entrare nella Nato e dal 2003 aveva vissuto un cambio di regime, proprio con l’arrivo di Saakashvili, con quella rivoluzione delle rose che è stata il prototipo delle rivoluzioni colorate nello spazio postsovietico favorite dagli Stati Uniti.

La prima guerra putiniana in Cecenia nel 1999
La prima guerra putiniana è però quella in Cecenia, la seconda nella repubblica caucasica della Federazione russa, cominciata nell’autunno del 1999, quando al Cremlino c’era ancora Boris Yeltsin e Putin era primo ministro. Era iniziata tre anni dopo la fine del primo conflitto, avvenuto tra il 1994 e il 1996, quando a Grozny le spinte centrifughe si erano intrecciate con il radicalismo islamico. La priorità del Cremlino era quella di evitare l’effetto domino nel Caucaso e contrastare il terrorismo che negli Anni 2000 aveva colpito a ripetizione a Mosca e dintorni, basti ricordare il massacro della scuola di Beslan nel 2004.
La linea rossa tracciata dal Cremlino nel 2007
Le accuse dell’Occidente sulle violazioni dei diritti umani in Cecenia o nell’altra guerra ancora in corso sottotraccia insieme a quella nel Donbass, in Siria, non hanno preoccupato troppo il Cremlino, che è ricorso alle operazioni militari ovunque ha visto che con altri mezzi non poteva raggiungere i propri obiettivi. Ecco perché a questo punto il muro contro muro in Ucraina e con la Nato appare estremamente pericoloso. Dopo oltre sei anni di guerra nel Donbass e di confronti internazionali, gli Stati Uniti e l’Europa non hanno ancora capito che quelle linee rosse che il Cremlino ha tracciato dal 2007 in avanti, dal famoso discorso di Putin alla Conferenza per la sicurezza di Monaco in cui si chiariva già come l’allargamento dell’alleanza Atlantica andasse a minacciare gli interessi nazionali russi, non sono un bluff, ma sono veramente invalicabili, oggi più che mai.