I numeri sono approssimativi, ma la tendenza appare chiara. Soprattutto nelle prime settimane di guerra, dopo l’invasione cominciata il 24 febbraio, un gran numero di russi ha lasciato il proprio Paese: secondo l’organizzazione Ok Russians (okrussians.org), organizzazione non governativa che si occupa appunto dei cittadini fuggiti dalla Federazione, di dare loro aiuto e si impegna contro la loro discriminazione all’estero secondo il motto per cui “questa è la guerra di Putin, non di tutti i russi”, solo nel primo mese del conflitto sono stati 300 mila. Una ricerca sociologica ha definito il quadro di questo schieramento anti-putiniano che ha lasciato la Russia dove la protesta contro la guerra è stata repressa da subito senza troppi complimenti mettendo a tacere le voci dissidenti, tra la popolazione, i media e anche all’interno dell’élite politico-finanziaria alle spalle del Cremlino.
Il 47 per cento di chi ha lasciato la Russia ha tra i 25 e i 34 anni
Secondo i dati raccolti da Ok Russians, la gran parte di chi ha abbandonato il Paese ha meno di 35 anni: il 47 per cento è tra i 25 e i 34 anni, il 10 per cento al di sotto dei 24; il 29 per cento fra i 45 e 35, il restante 14 per cento sono gli over 45. Giovani, quindi, ma già inseriti nel mondo del lavoro, con la possibilità anche di continuare, teoricamente, la propria attività all’estero; non è un caso infatti che un terzo provenga dal mondo dell’IT, Molti dei russi in fuga arrivano da professioni indipendenti o creative, di solito ben retribuite, solo un terzo ha figli. Ha lasciato casa in sostanza chi poteva permetterselo, dal punto di vista economico e familiare, e lo ha fatto sapendo che sarebbe stato via molto tempo (41 per cento) o forse per sempre (27 per cento). La guerra e i suoi riflessi sulla società russa non sono certo di breve durata.

Tra i motivi la paura della repressione di Mosca e la mancanza di prospettive lavorative
Le motivazioni principali che hanno indotto alla decisione di lasciare il Paese sono evidenti e partono in primo luogo dalla condanna dell’invasione dell’Ucraina, con la volontà di non volere vivere in uno Stato aggressore, e la paura della repressione nel caso di manifestazioni di dissenso con annessi e connessi, ad esempio le difficoltà sul lavoro. Più in generale il conflitto tra Mosca e Kyiv, sempre definito in Russia come “operazione speciale”, ha generato secondo Ok Russians grandi timori verso il futuro, anche se non immediato, fra problemi collegati alle sanzioni e mancanza di prospettive. Senza contare la questione di essere visti come traditori o spie con la propaganda statale che sottopone a un lavaggio del cervello di massa.
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Tra le mete più gettonate, Georgia, Armenia e Turchia
Via quindi all’estero, verso Paesi amici e vicini, più fuori che dentro l’Europa, visto che per questioni di burocrazia, dai visti ai vaccini, Bruxelles non ha certo spalancato le porta a chi ha deciso di scappare dal regime di Putin. I russi se ne sono andati soprattutto in Georgia e Armenia, ex repubbliche sovietiche che hanno mantenuto i collegamenti con Mosca e non hanno messo barriere all’arrivo di questa piccola ondata migratoria, al pari della Turchia. Diverso il discorso appunto nell’Unione Europea, dove comunque da tempo si stava insediando una comunità di emigrati oppositori del Cremlino: intellettuali, attivisti, giornalisti, artisti e via dicendo, che da qualche anno stanno abbandonato la Russia e hanno fondato una trentina di organizzazioni e media in vari stati dell’Unione, soprattutto in Germania.
La comunità russa in Germania
Qui, negli ultimi 30 anni, si è concentrata l’emigrazione russa dopo il collasso dell’Unione sovietica. La Germania ha accolto 25 mila cittadini ex sovietici ogni anno a partire dal 1992 sino al 2014, quasi il doppio di quelli andati negli Stati Uniti, seguiti a distanza da Israele, Spagna, Corea del Sud e Italia. Nel 2019 dalla Russia sono emigrate all’estero oltre 300 mila persone, stesso numero all’incirca di quelle fuggite nelle prime settimane di guerra del 2022. E per il futuro della Federazione non è solo un problema di quantità, di prosciugamento numerico, ma soprattutto di qualità, di impoverimento intellettuale.