Nel 2021 il Cremlino ha pianificato di impadronirsi non solo dell’Ucraina, ma anche della Bielorussia, sebbene più gradualmente. Lo scrive Dossier Center di Michail Khodorkovsky, oppositore di Vladimir Putin in esilio a Londra: un gruppo di giornalisti di tutto il mondo avrebbe avuto accesso a un documento interno intitolato “Obiettivi strategici della Federazione Russa in direzione bielorussa”, che spiega passo dopo passo come assumere il pieno controllo della politica, dell’economia e del potenziale militare di Minsk entro il 2030.

Cosa prevede il piano strategico del Cremlino
Stabilire il predominio della lingua russa sul bielorusso, adeguare la legislazione locale a quella della Russia, assumere il controllo della politica estera, incrementare la presenza militare nel Paese, soggiogare l’informazione aumentando il numero di media russi, introdurre una procedura semplificata per il rilascio di passaporti russi ai cittadini bielorussi. Occhio a quest’ultima misura, in particolare: la “passaportizzazione”, sottolineano gli esperti, è uno dei metodi preferiti dal Cremlino per intromettersi nella politica dei Paesi stranieri, perché regala facili pretesti per intervenire militarmente, in difesa dei propri cittadini. Più in generale, il piano di Mosca prendere in mano la vita commerciale, scientifica e culturale della Bielorussia. Nelle 17 pagine del documento, scrive Dossier Center, i vari step sono divisi tra quelli da raggiungere a breve (entro il 2022), medio (2025) e lungo termine (2030). Il piano strategico è stato visionato da giornalisti di testate ucraine, ungheresi, tedesche, svedesi, polacche, ceche, slovacche e statunitensi: esperti esterni ne hanno confermato la credibilità.
Gli uomini dietro al piano della Russia
Il documento sarebbe stato stilato dall’amministrazione presidenziale, insieme al Servizio di intelligence estero, all’Fsb, al Gru e allo Stato maggiore delle forze armate russe. Fondamentale, rivela Dossier Center, il ruolo del dipartimento per la cooperazione alle frontiere guidato da Alexei Filatov, che aveva già rappresentato gli interessi del Cremlino in Ossezia del Sud e Abcasia, supervisionando inoltre l’interazione politica con le autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk. Lo sviluppo del piano sarebbe stato in particolare affidato a Sergey Malenko e Vadim Polishchuk. Il primo, già consigliere di Putin in occasione delle presidenziali del 2012, all’interno del dipartimento si occupa dei progetti di integrazione. Vadim Polishchuk, consigliere di Malenko, ha lavorato a lungo per il Gru. Un altro ideatore della strategia del Cremlino è Vadim Smirnov, che dirige il dipartimento dell’amministrazione presidenziale per le relazioni interregionali e culturali con l’estero.

Stato dell’Unione, l’alleanza a lungo “sospesa”
Nella strategia a lungo termine di Mosca gioca un ruolo cruciale lo Stato dell’Unione, entità sovranazionale e intergovernativa formata da Russia e Bielorussia, che creata nel 1996 ha preso il nome attuale l’8 dicembre 1999. All’epoca al Cremlino c’era Boris Eltsin, mentre il potere in Bielorussia era già nelle mani di Alexander Lukashenko (insediatosi nel 1994): lo scopo dell’alleanza è quello di ristabilire una stretta cooperazione, in molteplici settori, tra le due ex repubbliche sovietiche, e di «armonizzare le differenze politiche ed economiche» dei Paesi: una natura piuttosto vaga, che lascia ampio spazio di manovra al Cremlino.

Il riavvicinamento alla Russia era stato il leitmotiv della campagna elettorale di Lukashenko, che riuscì a fare colpo sui freschi nostalgici dell’Urss. Di fatto però, a lungo tutto è rimasto sulla carta e, per oltre venti anni, le parti si sono fermate ai negoziati. Lukashenko ha cercato di mantenere un equilibrio, sospeso tra Mosca, l’Occidente e persino al Cina. Ha beneficiato via via di sussidi, assistenza finanziaria e politica dalla Russia, cedendo piccoli elementi di sovranità.
Cosa è cambiato dal 2020: la rivolta popolare
Tutto è cambiato nel 2020, quando in Bielorussia è scoppiata un’enorme rivolta popolare, sedata dal presidente con l’aiuto della Russia, che ha fornito intelligence e unità di polizia addestrate a sopprimere i raduni. Ma anche giornalisti, che nei media hanno preso il posto dei colleghi bielorussi in sciopero. Da allora Lukashenko è diventato molto più dipendente da Putin rispetto a prima, in termini di sopravvivenza politica. Non è certo casuale che, Russia e Bielorussia abbiano annunciato di aver firmato un pacchetto di 28 programmi, atto a rafforzare l’alleanza tra i due Paesi, a settembre 2021. Da allora la Russia ha cercato di accelerare il ritmo del processo di integrazione e anche la Bielorussia, di fronte alla nuova realtà economica in tempo di guerra, sta spingendo in questa direzione, concedendosi volente o nolente alla completa subordinazione alle autorità russe in politica, economia e cooperazione militare, scrive Dossier Center.

Lukashenko è di fatto vassallo di Putin
Per quanto riguarda il conflitto in corso, Lukashenko ha offerto il territorio bielorusso alle forze russe in vista dell’inizio delle operazioni nel febbraio del 2022. Da qui sono partiti attacchi missilistici e aerei da parte delle forze di Mosca, entrati in Ucraina anche dal confine bielorusso. Il sostegno all’invasione ha reso il Paese di Lukashenko cobelligerante nella guerra in Ucraina e, per questo, oggetto di sanzioni. Sempre più vicino a Putin, il 17 febbraio Lukashenko ha incontrato il presidente della Russia a Novo-Ogaryovo: i due, oltre che di guerra, hanno discusso di un nuovo ciclo di integrazione nell’ambito dello Stato dell’Unione. Parlando con Yahoo News, il rappresentante permanente dell’Ucraina presso le Nazioni Unite, Sergei Kislitsa, ha spiegato che la Bielorussia è già una colonia russa de facto e che l’invasione russa dell’Ucraina non ha lasciato a Lukashenko nessuna scelta: «Avrà maggiori possibilità di decolonizzazione quando l’Ucraina vincerà la guerra».