La morte di Donald Rumsfeld, la guerra in Iraq e il Nigergate

Redazione
01/07/2021

Rumsfeld, architetto delle guerre di Bush in Medio Oriente, è morto a 88 anni. Sostenne l'offensiva in Iraq basandosi sul Nigergate, una fake news che parlava anche italiano.

La morte di Donald Rumsfeld, la guerra in Iraq e il Nigergate

Donald Rumsfeld, ex segretario alla Difesa dei governi di Gerald Ford (1975-77) e George W. Bush (2001-06) è morto a Taco, nel Nuovo Messico, il 30 giugno. Aveva 88 anni. Repubblicano, ha servito a lungo il governo federale, ed è stato anche Capo di Gabinetto, dal 1974 al 1975, del Presidente Ford.

https://twitter.com/RumsfeldOffice/status/1410315512966434818

Dopo gli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 è stato, insieme al vicepresidente Dick Cheney, al Segretario di Stato Colin Powell e alla Consigliera per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice, “l’architetto” dell’invasione americana dell’Afghanistan e dell’Iraq, teorico della dottrina (passata alla storia come “dottrina Bush”) della “guerra preventiva”. Un’aberrazione totale del diritto internazionale, che invece consente le operazioni militari contro un altro Stato solo per rispondere a un attacco armato (cioè per legittima difesa).

L’eredità di Rumsfeld

Nonostante la guerra in Afghanistan sia ancora in corso (il ritiro delle truppe americane è previsto il prossimo 11 settembre), e quella in Iraq si sia rivelata da subito un attacco fondato su bugie colossali (il possesso di armi di distruzioni di massa da parte di Saddam Hussein), Rumsfeld ha sempre difeso quelle operazioni, come si legge anche nella sua autobiografia Known and Unknown: «Abbiamo liberato il mondo da un dittatore brutale come Saddam, creando una situazione più stabile e più sicura». Cosa non vera, visto che l’Iraq non ha mai trovato stabilità (anzi, è stato il terreno su cui è nato l’Isis) e il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, pur prossimo, pone ancora grossi dubbi sulla situazione che gli americani lascerebbero, andandosene. Anche per questo, il Daily Beast gli dedica un profilo molto poco lusinghiero (“Il responsabile della morte di 400 mila persone è morto in pace”), che inizia così: «L’unica cosa tragica della morte di Donald Rumsfeld è che non sia avvenuta in una cella irachena».

Rumsfeld, l’Italia e il Nigergate

Ma come nacque l’invasione dell’Iraq? Su che basi, Colin Powell mentì alle Nazioni Unite sulla presenza di armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein? C’entra anche l’Italia, purtroppo. Rocco Martino, informatore del Sismi (i servizi segreti italiani) fornì infatti alla Cia dei documenti falsi che attestavano l’acquisto, da parte del governo iracheno, di polvere di uranio yellowcake dal Niger. Sulla base di quei documenti, i governi di Usa e Inghilterra (Tony Blair, primo ministro inglese, fu tra i principali alleati di Bush dell’epoca) affermarono che Saddam Hussein avesse violato l’embargo dell’Onu, e si fosse procurato del materiale nucleare per costruire delle armi di distruzione di massa. La vicenda è ricordata come Nigergate.

In sostanza, furono creati dei documenti falsi, recanti il timbro dell’ambasciata nigerina a Roma, che attestavano il passaggio dello yellowcake da Niamey a Baghdad. Per quanto lo stesso Sismi, l’intelligence francese, l’MI6 (i servizi segreti inglesi) e la Cia li avessero catalogati come poco attendibili, il 28 gennaio 2003 George W. Bush annunciò alla nazione: «Il governo britannico ha appreso che Saddam Hussein ha recentemente cercato quantità significative di uranio dall’Africa». Un falso, portato alla luce anche da inchieste giornalistiche americane e dalla pubblicazione, il 6 luglio 2003, di un articolo sul New York Times da parte dell’ambasciatore Joseph Wilson (“Cosa non ho trovato in Africa”), in cui il diplomatico diceva di avere «poca scelta, se non concludere che parte dell’intelligence relativa al programma di armi nucleari dell’Iraq è stata distorta per esagerare la minaccia irachena». I fatti, e le responsabilità italiane, furono ricostruite nel 2005 da un’inchiesta dei giornalisti Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo su La Repubblica.