Suburbia

Giancarlo Castelli
20/10/2021

La scomparsa del conflitto sociale e dello spazio pubblico. Il disincanto nei confronti dei politici. Così le periferie di Roma negli anni si sono chiuse in se stesse.

Suburbia

Per capire ciò che è accaduto nelle periferie romane in questa tornata elettorale basta osservare i risultati del V Municipio, un territorio sterminato che va dal Pigneto alla zona ultra-periferica de La Rustica, in cui ha vinto il centrosinistra. «Ma se si analizza il voto quartiere per quartiere», fa notare Daniele Leppe, avvocato dell’associazione TorPiùBella e osservatore attento delle periferie della Capitale, «mano a mano che si va fuori città, verso Tor Sapienza, i voti per il centrodestra progressivamente aumentano». I risultati del Municipio V confermano quello che agli analisti, ormai da tempo, sembra piuttosto lampante: non solo, come è accaduto nelle elezioni precedenti, le periferie romane preferiscono il centrodestra (o l’astensione) rispetto alle cosiddette aree Ztl ma persino all’interno degli stessi territori si crea una differenziazione, si formano un “centro” e una “periferia”(della periferia).

La vittoria dell’astensione nei Municipi periferici della Capitale

La rappresentazione in scala minore di una forza centrifuga che riguarda il bene comune e l’aspettativa pubblica, concetti che sopravvivono solo nelle aree più centrali o semi-centrali. Il luogo comune, il mantra delle “periferie abbandonate”, come tutti sanno, è diventato un refrain televisivo da campagna elettorale e da talk show. Vero è, però, che l’affluenza al ballottaggio ha segnato a Roma il record negativo del 40,68 per cento, otto punti in meno del primo turno. Lo si vede soprattutto nei Municipi che nel 2016 avevano premiato la candidata del M5s Virginia Raggi e al primo turno Enrico Michetti come il VI (Tor Bella Monaca, Torre Maura, Torre Angela) e il X (Ostia e Acilia).

Il comizio e la passerella in periferia non bastano più

Al di là dei mantra televisivi, la questione-periferie non si può certo sottacere e non solo per l’astensionismo. «Innanzitutto c’è la disaffezione verso la politica e le istituzioni per il convincimento che, al di là del risultato, non cambierà mai nulla e i problemi cronici che abitano le periferie rimarranno tali e quali», continua l’avvocato Leppe. «Non basta certo il comizio pre-elettorale di Tizio o Caio a cambiare il corso delle cose». A Tor Bella Monaca, ad esempio, Matteo Salvini c’è stato, ma non ha riempito la piazza anche se si sa quanto, in passato, le politiche del centrodestra abbiano fatto breccia in quel territorio. «Sì, sono venuti tutti i campagna elettorale», continua Leppe, «ma non basta la presenza: ormai nei cittadini si è rafforzato il convincimento di essere soltanto strumentalizzati. Quella presenza, insomma, serve solo e unicamente per chiedere il voto».

l'analisi del voto nella periferia di Roma
Salvini a Tor Bella Monaca lo scorso settembre (da Facebook).

La scomparsa del conflitto sociale

Non è da oggi che questo accade. In passato però la differenza la faceva una certa capacità di iniziativa autonoma: dalle situazioni di disagio delle periferie si passava a una qualche forma di auto-organizzazione. Quello che veniva chiamato “il conflitto sociale” (che oggi troppo spesso viene citato con accezione negativa). Fenomeno ormai scomparso, a parte qualche sporadico caso come l’attivismo “quasi privatistico” di alcuni comitati e gli “spazi occupati” nell’impegno sociale. «A Tor Bella Monaca si è registrata l’affluenza più bassa di tutta Roma: appena il 32 per cento è andato a votare, contro il 40 del primo turno. Ai Parioli e al Salario, invece, si è registrata l’affluenza più alta», insiste Leppe. «La realtà è che nelle aree più centrali o più abbienti si hanno maggiore contezza e consapevolezza riguardo alla difesa dei propri interessi. Nelle periferie questa cosa è completamente scomparsa».

Nelle periferie è venuto a mancare lo spazio comune stretto tra «norma domestica e caos pubblico»

Secondo lo scrittore e docente Christian Raimo, da qualche anno anche assessore alla Cultura del III Municipio, nelle periferie ormai da anni si respira disaffezione per lo spazio pubblico vero e proprio. Riprendendo le riflessioni di Piero Vereni, docente di discipline demo-etno-antropologiche all’Università di Tor Vergata e autore del saggio Il centro e la rete (contenuto in Periferia) Raimo sottolineava «l’autoconfinamento» di quartieri come Tor Bella Monaca con «lo spazio condiviso spezzettato in un’infinità di spazi privati». Una pratica, spiegava Vereni, che ha ormai generato «un’indisponibilità immaginativa di spazio comune», sostituita da «una contrapposizione costante di spazio privato e spazio di nessuno, per cui alcune porzioni di spazio pubblico sono privatizzate nell’uso e alcune porzioni dello spazio personale subiscono la pressione espansiva del nulla pubblico, in una crescente contrapposizione tra norma domestica e caos pubblico». Roma, nelle sue aree più estreme, è diventata una «città fai da te», secondo Raimo, «chi ci vive sa che la propria vita non dipende dalla politica. Da qui la disaffezione. Per tutto. Anche per lo spazio pubblico».

La spoliazione dei quartieri provocata dal Piano Regolatore di Veltroni del 2008 – che in origine aveva come obiettivo la ricucitura tra periferie e centro ma che è stato duramente criticato dall’urbanista ed ex assessore Paolo Berdini (in Rome Nome città plurale Berdini lo definisce «il più scellerato» che la città abbia mai conosciuto: «Si prevedono nuovi insediamenti per oltre 500 mila nuovi abitanti di fronte a una città che non cresce più dal 1991 e nel contempo si allentano tutte le regole del governo pubblico del territorio») fino al fenomeno Mafia Capitale – con la criminalità che controllava di fatto le periferie avendo le mani sulla gestione dei rifiuti, i campi rom e gli appalti dell’accoglienza – hanno solo peggiorato le cose.