La crociata dei Rohingya contro Facebook

Camilla Curcio
07/12/2021

Il social, già accusato di aver prestato il fianco a fake news sulla situazione in Myanmar, è stato denunciato dai rifugiati in Uk e Usa per aver continuato ad alimentare la campagna d'odio nei confronti della minoranza musulmana. Chiesto un risarcimento di 150 miliardi di dollari.

La crociata dei Rohingya contro Facebook

I problemi di Facebook con l’hate speech sembrano non avere fine. Negli ultimi giorni, numerosi rifugiati Rohingya residenti nel Regno Unito e negli Stati Uniti hanno denunciato il social di Mark Zuckerberg per aver assecondato per anni la diffusione di messaggi d’odio e violenza nei loro confronti, chiedendo un risarcimento di oltre 150 miliardi di dollari. Accuse a cui, al momento, la compagnia non ha risposto.

Le accuse dei Rohingya a Facebook

Gli avvocati, incaricati di rappresentare alcuni dei membri della minoranza etnica presente soprattutto in Myanmar, si sono attivati immediatamente attraverso lettere e reclami, spiegando nel dettaglio le ragioni alla base degli esposti. In Gran Bretagna, il team legale ha elencato le motivazioni in una lettera indirizzata all’azienda e riportata dalla Bbc. Tra queste, l’utilizzo degli algoritmi per amplificare la divulgazione di disinformazione e fake news; l’assenza di moderatori e fact checker preparati sulla situazione politica in Myanmar, dunque capaci di smentire eventuali bufale; l’incapacità dei vertici di agire in maniera tempestiva, nonostante gli avvertimenti di media e onlus, su contenuti e account dannosi attraverso provvedimenti di censura e ban. La stessa strategia è stata adottata in America, dove Facebook è stato querelato per aver dato prova di «essere pronto a sacrificare le vite dei Rohingya in cambio della conquista di una fetta di mercato in un piccolo Paese del Sud-est asiatico». Facendo riferimento, in particolare, a una serie di post nei quali si parlava di una pulizia etnica del popolo pari al genocidio ebraico: «Dobbiamo sterminarli esattamente come ha fatto Hitler con gli ebrei», si legge in un post del 2013, oppure: «Cospargiamoli di benzina e diamo loro fuoco. Incontreranno Allah il più presto possibile».

Decine di rifugiati rohingya hanno fatto causa a Facebook per aver diffuso messaggi d'odio
Rohingya in protesta a Kuala Lumpur (Getty Images)

Facebook non avrebbe mai vigilato sui post in lingua birmana e rakhine

La totale mancanza di attenzione del social nei confronti dei Rohingya, dunque, non è un fatto recente. Già nel 2018, infatti, il colosso del tech aveva ammesso di non aver fatto abbastanza per arginare la gogna ingiustificata a cui erano stati sottoposti e di aver sostanzialmente prestato il fianco a veri e propri abusi. In più, nonostante la sua popolarità in Myanmar, dove viene utilizzato come hub di informazione da più di 20 milioni di utenti, Facebook non si era mai posto il problema di capire cosa stesse succedendo nelle sue diramazioni più locali, sottovalutando quanto essenziale potesse essere vagliare sui messaggi scritti in idiomi come il birmano e il rakhine. Questo, secondo gli addetti ai lavori, avrebbe contribuito ad alimentare la macchina dell’odio, fino a dare adito a complotti terroristici e brutali tensioni etniche. E, mentre Zuckerberg prova a ripartire da zero con Meta, gli errori del passato lo perseguitano. Soprattutto in casi come questo dove si sarebbe potuto agire in tempo per arginare una campagna d’odio contro una comunità già discriminata. L’epilogo della causa non è, al momento, prevedibile: la legge statunitense tutelerebbe Facebook da ogni sorta di responsabilità sui contenuti postati dai suoi user. Tuttavia, in Myanmar questa tutela non esiste. Dunque, le ragioni della parte offesa dovrebbero prevalere.