Secondo alcune ricostruzioni, le ultime parole di Richard Wagner furono: «Il mio orologio!». Si era sentito male e un domestico, aiutandolo, aveva fatto finire a terra l’orologio da tasca che il musicista teneva nella veste da camera. Pochi istanti dopo, un infarto lo fulminò. Era il primo pomeriggio del 13 febbraio 1883. Una frase del medico che constatò il decesso ha fatto supporre a qualcuno che gli fosse stato fatale
l’amplesso con una cameriera. Ma prove non ce ne sono. Come non ce ne sono rispetto alla sconcertante circostanza che la vedova sarebbe rimasta a fianco della salma per un giorno intero, sul letto dov’era stata composta a palazzo Vendramin Calergi sul Canal Grande, oggi sede del Casinò municipale, dove i Wagner si erano installati nel settembre del 1882. È stato calcolato che nelle 24 ore successive alla sua morte furono spediti da Venezia ai quattro angoli del mondo, Nuova Zelanda compresa, circa 5.000 telegrammi. La notizia della scomparsa di Richard Wagner, che avrebbe compiuto 70 anni il 22 maggio successivo, si diffuse con una rapidità straordinaria per quei tempi.

Wagner, il primo artista globale
Senza precedenti anche l’ondata di lutto e compianto. I tributi di ogni genere (letterari e musicali soprattutto, solo raramente destinati a futura memoria) proseguirono per mesi: Wagner era morto, la celebrazione del genio segnava l’atto di nascita non tanto del wagnerismo, che si era abbondantemente diffuso già in precedenza e si era consolidato a partire dall’inaugurazione del Festival di Bayreuth, nel 1876, con la prima esecuzione completa dell’Anello del Nibelungo, ma di un vero e proprio culto, che ha attraversato indenne quasi 140 anni di storia. E che rimane professione di fede coltivata a tutte le latitudini, in maniera spesso inattesa o sorprendente. Del resto sostenuta dalla radicata presenza delle sue opere principali nei teatri e nei festival di tutto il mondo. Wagner è stato un intellettuale e un artista “globale”, come mai era accaduto prima. E non solo per avere teorizzato la cosiddetta «opera d’arte totale» della quale si proclamava unico demiurgo in quanto musicista, poeta, regista, scenografo… Ma per essere stato uno scrittore alacre e fluviale, filosofo della sua stessa arte, autore capace di discettare sugli argomenti più disparati, dalla politica alla storia, dall’economia alla letteratura, dal teatro all’opera, dalla scienza alla vita comune nei suoi molteplici aspetti. Quando morì, stava lavorando a un saggio intitolato Sull’elemento femminile nella specie umana.

Il ripugnante pamphlet antisemita Il giudaismo nella musica
In questa enorme mole di scritti, un posto sicuramente cruciale spetta al pamphlet pubblicato sotto pseudonimo nel 1850 (con il nome “Freigedanken”: liberi pensieri) e intitolato Il giudaismo nella musica. Il testo fu poi ripubblicato con ampliamenti, e questa volta con il suo vero nome, nel 1869. In queste pagine infami si dispiega in pieno tutto il virulento antisemitismo di Wagner. Vi si trova l’odio per alcuni
compositori ebrei che riteneva lo avessero danneggiato o che giudicava deplorevoli (Meyerbeer, Mendelssohn, Halévy), ma anche l’elaborazione di una sorta di teoria dell’assimilazione degli ebrei nella società tedesca che in qualche maniera arriva perfino a ipotizzare la loro “dissoluzione”, naturale o forzata. Un aggettivo si adatta a questo ignobile pamphlet, ed è quello sempre usato da Wagner contro gli ebrei: ripugnante.
Quei legami tra nazismo e wagnerismo
Questi attacchi non nascevano per caso: i circoli intellettuali più vicini a Wagner contava numerosi “campioni” del nazionalismo antisemita, come Joseph Gobineau (l’autore del Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane) o Houston Chamberlain (che avrebbe sposato la figlia del compositore) e anche sua moglie Cosima – come provano i suoi Diari – era un’accesa antisemita. Mezzo secolo dopo la morte, il razzismo antiebraico in chiave nazionalista di casa Wagner sarebbe diventato uno dei principali punti di contatto della famiglia con il regime nazista, che subito trasformò il festival di Bayreuth nella propria vetrina culturale. Hitler, appassionato wagneriano, fin dai primi Anni 20 era amico personale di Winifred Wagner, moglie di Siegfried, unico figlio maschio del compositore. I suoi nipoti accoglievano il führer nella casa di Bayreuth, nel cui giardino si trova la sua tomba, chiamandolo “zio Adolf”.

L’antisemitismo nelle opere di Wagner
L’antisemitismo di Wagner è diventato argomento di discussione storico-musicologica solo dopo la Seconda guerra mondiale. La questione è stata posta negli Anni 50 da Theodor W. Adorno (nel distruttivo Saggio su Wagner) ed è diventata molto accesa specie in ambito anglosassone fra gli Anni 60 e gli Anni 90. Discussione complessa, che riguarda da un lato il ruolo del conclamato antisemitismo wagneriano nel nazismo e perfino nella Shoah, con argomentazioni talora discutibili sui rapporti causali fra opere d’arte create nel secondo Ottocento ed eventi storici accaduti prima della metà del Novecento (e con accesi contrasti sul principio dell’autonomia dell’opera d’arte). E dall’altro lato verte sull’esistenza, o meno, di veri e propri “esempi musicali” di antisemitismo nelle opere di Wagner. Nel mirino anche il Parsifal, ma specialmente L’Anello del Nibelungo, a proposito di personaggi come i nani Alberich e Mime, e I Maestri Cantori di Norimberga, con il personaggio parodistico di Beckmesser.

In Italia il dibattito su Wagner si è acceso in ritardo
In Italia, la questione dell’antisemitismo wagneriano è stata trascurata o sottovalutata molto più a lungo che in altri Paesi. Sono dovuti passare quasi 120 anni prima che nel 2016 uscisse una nuova traduzione de Il giudaismo nella musica, dopo quella pubblicata nel lontanissimo 1897. E solo pochi anni fa il problema è stato finalmente messo a fuoco in un libro intitolato Il veleno del commediante. Arte utopia e antisemitismo in Richard Wagner (Ombre Corte, Verona, 2017), in cui gli specialisti Leonardo V. Distaso e Ruggero Taradel esaminano in due distinti saggi la questione sul piano musicologico e su quello storico-critico. In posizione più mediata rispetto al radicalismo di certi studi americani sulle “responsabilità” wagneriane negli orrori storici novecenteschi causati dal razzismo e dall’antisemitismo, ma ugualmente assai critica e con molti approfondimenti sul contesto strettamente musicale, si colloca la recente corposa ricerca del musicologo e semiologo della musica Jean-Jacques Nattiez. S’intitola Wagner antisémite – Un problème historique, sémiologique et esthétique, è uscita a Parigi nel 2015 e contiene anche tutti gli scritti del compositore collegati al razzismo, oltre al pamphlet di cui si parlava. L’uscita della traduzione italiana è imminente: sarà pubblicata da Ricordi- LIM a cura della musicologa Olga Visentini.

Il memoriale per gli ebrei vicino al teatro wagneriano di Bayreuth
A 139 anni dalla morte, l’antisemitismo di Wagner resta questione ineludibile anche se troppo spesso trascurata. Ne sono consapevoli in Germania, la patria del compositore, il Paese dove si trova Bayreuth, quello che ha generato le forme più aberranti e terrificanti di razzismo e antisemitismo, progettando e realizzando lo sterminio degli ebrei. Oggi, vicino al teatro wagneriano di Bayreuth, gli ebrei protagonisti negli spettacoli del festival hanno un memoriale. E dopo gli anni della rimozione post-bellica, quando sembrava che ridurre gli spettacoli all’essenzialità fosse la strada per cancellare l’uso fatto dal nazismo dell’arte di Wagner, il “regietheater” si è incaricato coraggiosamente di affrontare la questione, anche se non sempre con eguale efficacia. Quando però nel 2017 il regista australiano di origine
ebraica Barrie Kosky ha firmato a Bayreuth un’edizione dei Maestri cantori che si svolge all’inizio nella casa di Wagner e alla fine nell’aula del processo di Norimberga, il successo è stato senza ombre. Politicamente certificato dagli applausi della cancelliera Angela Merkel.