In pochi vanno a votare, ma quei pochi sanno bene per chi votare consentendo alla destra di gonfiarsi il petto per la indiscutibile vittoria. Cosa sta succedendo? È la sempre più evidente irrilevanza della discussione politica costretta a cercare sponde altrove, per esempio in un Festival canoro, la sfiducia nel potere rigenerante del voto, o più semplicemente che nell’era dell’on demand che ti consegna tutto sul divano di casa anche andare al seggio risulta uno sforzo troppo grande? Se così fosse, bisognerà pensare di accorpare in un bizzarro election day la finale di Sanremo e le elezioni, che quest’anno per Lombardia e Lazio (un buon quarto degli elettori italiani) cadevano a ridosso. E forse sarebbe l’unica panacea per tentare di risalire l’ineluttabile china della disaffezione.

La caccia al colpevole in un dibattito ribassista
Detto questo, quei pochi che sono andati a votare hanno dimostrato di avere, a seconda dei punti di vista, le idee chiare o molto confuse. Sulla Lombardia ad esempio ci si aspettava un giudizio biblico sull’inettitudine della giunta Fontana nei lunghi mesi del Covid, che al tempo fu palese e plateale. Invece ne è uscita rafforzata, un risultato che a guardare la liberatoria euforia dei leghisti, incontenibile già dalle primissime proiezioni, nemmeno loro si aspettavano. Dall’altra parte si procede con l’attribuzione delle colpe. Quelle dei lombardi che hanno la memoria dei pesci rossi e si sono dimenticati di Alzano, Bergamo, e i camion di bare? Quelle della Sinistra che sbaglia sempre la narrazione o, quand’anche la azzeccasse, non ha i narratori giusti per saperla raccontare? Nel sincero disorientamento ci si butta sui premi di consolazione: l’epic fail di Letizia Moratti la cui discesa in campo risultava credibile tanto quanto il suo tutorial sulla torta senza zucchero messo in circolazione sui social. L’assenza del padre, ovvero il Pd orfano di leader che anche lontano dal Nazareno ha condizionato i suoi elettori ancora alle prese con l’elaborazione del lutto. Un po’ poco, e tutto sempre in un dibattito che mutuando il linguaggio della Borsa si definirebbe ribassista.
Il rifiuto del matrimonio con Moratti è stato per il Pd una scelta azzeccata
Nessun guizzo, nessuna fantasia, un declino che porta solo rassegnazione. E ancora, l’incerta geometria delle alleanze che blandisce la mina vagante pentastellata più per necessità numerica che per convinzione. Ma anche la somma dei numeri, lo si è visto, non basta minimamente a scalfire lo strapotere di Meloni e compagnia, colpo duro a chi a sinistra rinnova il mantra dell’uniti si vince. No, uniti si perde lo stesso, e dunque invece di continuare a cercare ogni volta estemporanei compagni di viaggio bisognerà contare solo sulle proprie forze. Tanto che in Lombardia il rifiuto del matrimonio con Moratti alla fine per il Pd si è dimostrata una scelta azzeccata, che è valsa pur nella sconfitta la sostanziale tenuta del partito.

Il voto rafforza Meloni, anche perché vincere è meglio che stravincere
Si diceva dei premi di consolazione. Un altro viene dalla pressoché totale irrilevanza politica di Silvio Berlusconi, che pure in queste settimane ci aveva messo del suo per imbrigliare la corsa della sua giovane ex ministra ora diventata il suo superiore. Ma è poca cosa, perché non occorreva certo aspettare il verdetto di queste elezioni per vedere il Cav imboccare il viale del tramonto. Meloni, se mai, esce da questa tornata elettorale ancora più rafforzata: la sua supremazia dentro la coalizione è cresciuta. Sarebbe stata totale se la Lega e l’arcinemico Salvini fossero crollati nella loro roccaforte. Ma le congiunture perfette raramente si realizzano, e in politica ancora meno. Per questo forse è l’unico terreno della esasperata e amplificata conflittualità del dibattito pubblico dove vincere è meglio che stravincere.