Side A – Record Store Day. Domenica pomeriggio, in fissa, steso sul divano di casa osservo, come ipnotizzato, il mobile dei dischi posizionato sulla parete sinistra del mio salotto. Guardo dritto davanti a me questo mobile pieno zeppo di linee colorate quasi sopraffatto, perché ognuno di quei dischi contiene cose che conosco bene ed altrettante che ignoro totalmente. Molti non li sento da anni, o non li ho mai sentiti per intero. Fra l’indice e il pollice prendo la costa di un disco, poi un altro e un altro ancora. Muovo la puntina sulle tracce, velocemente, e poi passo ad altro, con la mente assetata. Graceland di Paul Simon, Paul’s Boutique dei Beastie Boys, Dalla di Lucio Dalla, Patriots di Battiato, Reggata de Blanc dei Police, Utopia di David Byrne, Let it Bleed dei Rolling Stones. Ed è proprio mentre sul piatto gira You Can’t Always Get What You Want che decido di infilarmi una felpa, mettere gli occhiali da sole, afferrare le cuffie e scendere in strada con in spalla la bici, diretto verso Serendeepity deciso a celebrare anch’io il Record Store Day. Che cos’è il Record Store Day lo spiega bene Luca Sofri nella sua newsletter quotidiana intitolata Canzoni sul Post: «È quella cosa che si inventò l’industria discografica un po’ di anni fa per attirare le persone nei negozi di dischi in crisi. Poi quella crisi è un po’ passata (tra quelli che sono sopravvissuti) per via del cosiddetto “ritorno del vinile” e il Record store day oggi ha anche dei critici perché il suo tratto principale – pubblicare dischi “speciali” per l’occasione: ristampe, inediti, rarità – genera complicazioni nella produzione ordinaria già affaticata e bagarinaggi sui dischi rari suddetti». Io di criticità sinceramente non ne ho anche perché per me c’è sempre una buona ragione per comprare qualche disco in più. Fatto sta che quando arrivo davanti a Serendeepity e parcheggio la bici di fronte all’entrata noto che dentro c’è un sacco di gente e soprattutto un mucchio di giovani che di solito non sempre ho il piacere di incontrare. Ultimamente ho un po’ mollato il jazz, dopo tre anni di full immersion ho voglia di ascoltare altro, roba nuova prevalentemente o vecchi dischi che conosco a memoria o che mi ricordano qualcosa di particolare, che so un periodo, una ragazza, una vacanza. Scelgo così tre album: Revolver dei Beatles, Anima Latina di Battisti ed Elvis dei Baustelle.
Leggenda narra che nel 1966 quando Paul McCartney tentando di far colpo su Bob Dylan gli fece ascoltare una copia su acetato di Tomorrow Never Knows Dylan rispose scherzosamente: «Ah, ho capito: non volete più essere carini»
Tempo fa i Chemical Brothers raccontavano in un’intervista rilasciata alla rivista Mojo che durante i loro tour a un certo punto avevano preso l’abitudine di mettere nel mezzo dei loro dj-set Tomorrow never knows, e ogni volta arrivava gente a frotte a chiedere «cos’era quella musica. Volevano sapere se era un remix o una nuova uscita. Era così intensa e selvaggia». Tomorrow never knows però non era affatto una canzone nuova, era il pezzo che chiudeva Revolver, secondo quasi tutti il disco migliore della band di Liverpool attraverso il quale John, Paul, George e Ringo smisero di colpo di essere solamente carini e passarono dalla grandezza all’immortalità. La leggenda narra che nel 1966 quando Paul McCartney tentando di far colpo su Bob Dylan gli fece ascoltare una copia su acetato di Tomorrow Never Knows Dylan rispose scherzosamente: «Ah, ho capito: non volete più essere carini». Ho ascoltato per la prima volta Revolver tempo fa grazie a un libro edito da Einaudi Stile Libero intitolato 33 dischi senza i quali non si può vivere, scritto da Ernesto Assante e Gino Castaldo, che avevo pescato casualmente sugli scaffali di una libreria un’estate a Rapallo. Dentro c’erano tutti i capitoli decisivi della musica nella sua età dell’oro, da Jimi Hendrix a Brian Eno, dai Pink Floyd a Frank Zappa. C’erano ovviamente Kind of blue di Miles Davis e My Favorite Things di John Coltrane, dischi per cui avrei perso la testa solamente molti anni dopo e altra roba che già conoscevo bene come London Calling dei Clash, Remain in Light dei Talking Heads o Sign o’ the Times di Prince. E c’erano soprattutto i Beatles, ma per l’appunto quelli di Revolver (non quelli di Sgt. Pepper’s, di Abbey Road o dell’album “bianco”), che insieme agli Stones di Let it Bleed iniziai ad ascoltare a ripetizione. L’ho perso quel libro, ma quello che mi ha insegnato lo ricordo ancora.
Per Anima Latina di Battisti devo invece ringraziare mia cugina Laura, la cui collezione di dischi, soprattutto 45 giri, saccheggiavo in continuazione ai tempi in cui vivevamo assieme a casa di mia zia Pia in via dei Transiti. Correva l’anno 1994 e nel piccolo ma delizioso salottino affacciato su viale Monza troneggiava il mio stereo Philips AS9300 che facevo suonare incessantemente tutti i pomeriggi tornato a casa da scuola a un volume assordante. Il Philips AS9300 aveva due casse poderose, due mangiacassette, la radio e in alto un piatto giradischi. Io avevo una bella collezione di cassette ma non possedevo nemmeno un vinile, così per metterne su uno ogni tanto rubavo quelli di mia cugina. Laura andava pazza per Renato Zero, per Vasco Rossi, per Gianna Nannini e soprattutto per Battisti di cui aveva praticamente tutti gli album. In particolare a me piaceva quello con sopra ritratta una squadra di bambini festanti sotto il sole, che con trombe, coperchi e pentole improvvisavano una specie di concerto in stile sudamericano. Il suo titolo era Anima Latina, ancora oggi considerato uno dei migliori album italiani di sempre, se non il migliore in assoluto, un viaggio fantastico lungo 47 minuti e 52 secondi, senza hit, che è un miscuglio straordinariamente assemblato di pop, classica, elettronica, folk e jazz, uscito per il Record Store Day di quest’anno in una speciale edizione vinilica di colore giallo.
Il trittico è chiuso da Elvis dei Baustelle, band che ho sempre ascoltato in digitale dentro l’iPod, in cuffia, soprattutto quando uscì Amen, gironzolando in bici per le strade della city urlando tra una pedalata e l’altra a squarciagola frasi come «Charlie fa surf, quanta roba si fa/MDMA ha le mani inchiodate/Charlie fa skate, non abbiate pietà/Crocifiggetelo, sfiguratelo in volto/Con la mazza da golf» oppure «Siamo scrittori in crisi a Beverly Hills/E siamo John Cassavetes/Siamo i dentisti di Los Angeles/Ed adoriamo il potere come te/Prepariamo le aragoste per chi viene a colazione/Prepariamo piani misteriosi appena ne cogliamo l’occasione». Elvis è appena uscito e il suo singolo Milano è la metafora dell’amore l’ho passato in trasmissione settimana scorsa, scegliendolo come pezzo d’apertura del programma, quasi in maniera simbolica per rivendicare il legame tra la scelta di tornare in onda per una semplice marchetta (di cui ho già parlato in precedenza) e l’Elvis strafatto e impasticcato a fine carriera dei tempi di Vegas, a cui curiosamente anche Bianconi & co hanno deciso di dedicare l’album. Mi ricorderò di questa cosa anche in futuro, tutte le volte che prenderò il disco in mano. In fondo ogni occasione è buona per comprare un vinile.
Side B – 25 Aprile. Io sono antifascista. «Odio gli indifferenti; credo che vivere voglia dire essere partigiani; chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia, opera potentemente nella storia; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia promulgare leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti….vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti». Così diceva Antonio Gramsci, fondatore del Partito Comunista che sempre s’impegnò in una lotta contro il regime fascista dal quale fu perseguito e incarcerato. Io anche, come Gramsci, odio gli indifferenti. Anche se a dire il vero, a essere totalmente sincero, non è sempre stato così, perché per lungo tempo, soprattutto da ragazzo indifferente lo sono stato, lo sono stato eccome. La mia famiglia non mi ha insegnato i valori dell’antifascismo. Mi hanno affidato a stuoli di tate e cameriere, mi hanno insegnato l’educazione, a stare composto a tavola, mi hanno detto che quando si sbadiglia si deve mettere una mano davanti alla bocca, che non si parla con la bocca piena, che bisogna sempre tenere un fazzoletto pulito a portata di mano, che non ci si infila le dita nel naso, che bisogna sempre dire grazie quando qualcuno ti porge qualcosa, che bisogna salutare per primi, che si deve essere puliti e mai trasandati, più una serie di altre sciccherie che sicuramente già conoscete anche voi senza che ci sia il bisogno che stia io qui ad elencarvele. La politica e l’antifascismo però non sono mai entrati nel programma, non perché la mia fosse una famiglia di destra, ma semplicemente perché forse si riteneva che fosse sconveniente educare un bambino a determinati valori piuttosto che ad altri. Non so. Mio papà finita la guerra nel 1946 arrivò in Italia dalla Bulgaria scappando dal comunismo, ma per tutta la vita si professò comunque socialista. Mio nonno materno Giorgio Ceriani Sebregondi fu alpino durante la guerra, partigiano della Sinistra cristiana e componente del CLN lombardo, ma in famiglia fu sempre additato come il diavolo perché ingravidò per ben due volte mia nonna (già vedova e con altre due figlie a carico) senza mai prendersi le proprie responsabilità, scegliendo piuttosto di partire per l’Africa. Nonno Giorgio fu per un periodo anche iscritto al Partito Comunista e questo forse per contrappasso allontanò il resto della famiglia dalla sinistra. Fatto sta che, da quanto ricordo, a casa nostra il 25 aprile è stato da sempre educatamente ignorato e semplicemente approcciato con un atteggiamento che si poneva nei suoi confronti senza infamia e senza lode.
La mia famiglia non mi ha insegnato i valori dell’antifascismo. Mi hanno affidato a tate e cameriere, mi hanno insegnato a stare composto a tavola, mi hanno detto che quando si sbadiglia si deve mettere una mano davanti alla bocca, che bisogna sempre tenere un fazzoletto pulito a portata di mano. La politica e l’antifascismo non sono mai entrati nel programma. Non perché la mia fosse una famiglia di destra, ma semplicemente perché forse si riteneva sconveniente educare un bambino a determinati valori piuttosto che ad altri
Personalmente la prima volta che andai al corteo fu ai tempi dell’università e fu una ragazza a portarmici. Con Giulia, iscritti entrambi alla facoltà di Lettere Moderne, in quei giorni della primavera del 2004, si stava preparando assieme l’esame di Storia e Critica del Cinema. Come nel film The Dreamers di Bernardo Bertolucci ci eravamo creati attorno l’illusione di essere diventati membri di una specie di massoneria, la massoneria dei cinefili. Ci sparavamo una serie di pellicole in videocassetta una dopo l’altra, asserragliati nella mastodontica villa dei genitori di Giulia in via Piolti de’ Bianchi, con un sacco di hashsish e parecchia anfetamina. Stavamo quasi sempre nudi e quando non fumavamo stringevamo in mano un bicchiere di vino, spesso dello Chateau Lafite, che rubavamo dalla fornitissima cantina di suo padre. Parlavamo delle mie perplessità su David Foster Wallace, del suo amore per Joan Didon, poi mettevamo su Zabriskie Point o Bande à part e se non eravamo troppo sconvolti facevamo l’amore. La mia vita era decisamente diversa da quella di tutti i miei amici che in quello stesso periodo si stavano laureando. Ero una rockstar, che vagava da un locale all’altro, da una discoteca all’altra e c’era sempre spazio per una striscia di cocaina, una vodka, un’altra sigaretta. Ma erano cose che potevo fare, perché avevo 24 anni e in fondo quello stile di vita più che distruttivo mi sembrava romantico. Negli ambienti che frequentavo, popolati da giovani principessine naziste e figli di capitani d’industria, aveva iniziato a spargersi la voce che fossi comunista e la cosa non mi dispiaceva affatto. La sera lavoravo in un bar in periferia, a Lambrate, i week end parlavo al microfono nelle consolle dei locali fighetti del centro. A mio modo lavoravo come un pazzo, nonostante avessi un fondo fiduciario che mi avrebbe permesso di non fare niente per almeno altri tre anni. Giulia e guardare film in bianco e nero in VHS erano tutto quello che volevo. Così, quel pomeriggio del 25 aprile, dopo aver visto Roma città aperta di Rossellini, uscimmo da casa sua e andammo alla manifestazione: io in Stan Smith, jeans e un maglione blu in shetland, lei tipo Caroline de Bendern, la Marianna francese del 68, con le clarck’s, un paio di pantaloni di velluto e un cardigan grigio antracite aperto su una t-shirt blu girocollo. Poi sono cresciuto e ho acquisto una consapevolezza sociale che mi ha portato negli anni a battermi personalmente, anche dai microfoni della mia trasmissione radiofonica sulle frequenze di Radio Popolare, per i diritti civili, per il rispetto delle minoranze, per dar voce agli ultimi, agli esclusi, agli emarginati. Dopo quella volta, con Giulia nel 2005, successivamente fu Ofelia a portarmi nuovamente al corteo del 25 aprile. Appuntamento che non ci facciamo mai mancare, tutti gli anni, da quando stiamo assieme. Da qualche anno poi abbiamo preso anche l’abitudine di portare un fiore dietro casa, all’angolo tra Viale dei Mille e Viale Giustiniano, dove è affissa la targa in memoria di Libero Rossi, antifascista, che aderì alla Resistenza militando nella 117esima brigata Garibaldi e che fu ucciso da un cecchino nei giorni della Liberazione il 27 aprile del 1945 a 25 anni. È anche per lui che oggi, ad alta voce, posso ribadire che sì, io sono antifascista.