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Ratzinger e la crisi della Chiesa tra Concilio e liturgia

Il dibattito scaturito dal Vaticano II, evento di cui Ratzinger fu protagonista, aiuta a inquadrare meglio la figura di Benedetto XVI. A partire dalla sua difesa delle radici e della liturgia. Posizioni per le quali fu bollato come conservatore tout-court in opposizione a Francesco. L’analisi.

5 Gennaio 2023 18:185 Gennaio 2023 18:21 Mario Margiocco
Ratzinger e la profezia della crisi della Chiesa tra Concilio e liturgia

Joseph Ratzinger cominciò la vita sacerdotale e la carriera da teologo in un decennio in cui la sua Chiesa cattolica appariva forte in Europa e non solo, ma fu tra i primi a testimoniarne il declino. Le chiese domenicali ancora si riempivano mentre oggi nella sua Germania, in Francia, in Olanda e altrove c’è un decimo dei fedeli di allora, un quarto in Italia, quando va bene. Ratzinger vide presto la nuova crisi dopo il ventennale sussulto cattolico degli Anni 30, soprattutto in Francia, e dopo la breve spiritualità rifugio dal terrore bellico, perché conosceva bene due maestri: il cardinale Newman (1801-1890) e Romano Guardini (1885-1958), quest’ultimo suo mentore intellettuale e legame ideale con Hannah Arendt, filosofa e politologa di grande fama  critica di vari aspetti della modernità, come Newman e Guardini. «Non si tratta», scriveva Guardini nel 1951, «della diminuzione dell’influsso della fede cristiana sulle condizioni generali, ma di qualcosa di più elementare: diminuisce il valore religioso dell’esistenza».

Ratzinger e la profezia della crisi della Chiesa tra Concilio e liturgia
Joseph Ratzinger nel 1959 (Getty Images).

Ratzinger e la previsione della crisi spirituale dell’Occidente

A 31 anni, nel 1958, Ratzinger diceva in una conferenza che «la Chiesa dei nostri tempi è una Chiesa di pagani che ancora si definiscono cristiani». «Dalla crisi di oggi», così concludeva alla radio bavarese un ciclo di conferenze la vigilia del Natale 1969, «la Chiesa di domani emergerà avendo perso molto. Diventerà piccola…». E aggiungeva che «il futuro della Chiesa può venire…solo dalla forza di coloro che hanno profonde radici. Non verrà da coloro che di volta in volta si adeguano al momento che passa…». Cinque anni fa scriveva nel suo L’opzione Benedetto l’americano Rod Dreher, citato poi dal segretario di Ratzinger, l’arcivescovo Georg Gänswein: «Nel 2012 l’allora pontefice disse che la crisi spirituale che sta colpendo l’Occidente è la più grave dalla caduta dell’Impero Romano, occorsa verso la fine del V secolo. La luce del cristianesimo sta spegnendosi in tutto l’Occidente». Un pessimista nato? No, troppo cristiano. Ma nella dicotomia del ‘69 tra le «profonde radici» e «il momento che passa» c’è già tutta la sua vicenda intellettuale dentro e fuori della Chiesa e c’è l’aspetto centrale del suo pontificato, e dei quasi nove anni passati a latere, ma sempre in veste bianca in un suo Ausnahmepontifikat, pontificato fuori ordinanza, silenzioso ma non assente, come Papa emerito, pensionato, primo assoluto, e rivoluzionario, nella storia millenaria del cattolicesimo.

Ratzinger e la profezia della crisi della Chiesa tra Concilio e liturgia
Il cardinal Ratzinger (Getty Images).

Le diverse letture del Concilio e le divisioni della Chiesa

Si può guardare alla Chiesa da credenti, la si può guardare con fastidio come un lascito del passato e si spera presto un relitto, la si può ritenere un millenario e cruciale, nella nostra civiltà, fenomeno religioso-culturale di cui ci si può sentire o non sentire parte, ma dal quale è difficile restare estranei. Ed è quest’ultima posizione da osservatori più o meno esterni la più fruttuosa, forse, per avere un’immagine sul papa emerito morto il 31 dicembre e la Chiesa del suo tempo. Non si arriva a molto se si procede con le categorie assolute di conservazione e progressismo, di nemici e di sostenitori del Concilio. La storia è più complessa. Anche se, non c’è dubbio, a dividere la Chiesa, prima, durante e dopo il papato di Ratzinger è stata proprio una diversa lettura del Concilio. La Chiesa era già divisa prima di papa Roncalli fra diverse tipologie di innovatori e non. Ma fu il Concilio a cristallizzare la pietra di paragone. E difficilmente la Chiesa avrà pace fino a quando un papa non riuscirà ad affermare ciò che unisce, e non ciò che divide di quel grande avvenimento di 60 anni fa.

Contro la «dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo»

Il tutto ha pesato negli otto anni di  Benedetto XVI papa, la cui elezione rapida al quarto scrutinio gettò lo sconcerto nel pomeriggio del 19 aprile 2005 fra non pochi progressisti che avevano pubblicamente definito la sua omelia preconciliare, quale decano (Missa Pro Eligendo Romano Pontifice, mattina del 18 aprile), come un “canto del cigno”. Ratzinger attaccava «una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo», e si sapeva benissimo che non parlava solo del mondo esterno, e indicava il Figlio di Dio e vero uomo come «la misura del vero umanesimo». Homo historicus, a suo agio in tutta la cultura filosofica e teologica, Ratzinger era vicino alla Arendt quando la studiosa ebrea profuga a New York, poco dopo avere analizzato logiche e misfatti dei totalitarismi, diceva che «la memoria e la profondità del pensiero sono la stessa cosa, o meglio, la profondità non può essere raggiunta dall’uomo se non attraverso la memoria» (What Is Authority?, 1954). Il passato prima del futuro, per conoscere se stessi e il mondo.

Ratzinger e la profezia della crisi della Chiesa tra Concilio e liturgia
Ratzinger con Papa Giovanni Paolo II nel 2003 (Getty Images).

Ratzinger Frings, Rahner, Danièlou e de Lubac: dal Concilio al dopo-Concilio

Entusiasta perito teologico al Concilio, dove fu portato dal progressista cardinale Josef Frings di Colonia, Ratzinger fu l’autore di un discorso tenuto da Frings a Genova poco prima dell’assise e che Giovanni XXIII lodò ampiamente; e sempre Ratzinger fu l’autore di un applauditissimo discorso conciliare in cui Frings attaccava il Santo Uffizio per eccessi di conservatorismo e severità chiedendone la riforma, che avvenne con la trasformazione in Congregazione per la dottrina della fede, di cui il futuro Benedetto XVI sarà a capo dal 1982 al 2005. Ratzinger faceva parte al Concilio di un gruppo inizialmente unito in cui spiccavano il tedesco Karl Rahner, gesuita, che risulterà alla fine il più influente, molto progressista, critico di tutta la tradizione teologica di cui avviò la profonda rifondazione e, più sul lato di Ratzinger, numerosi altri tra cui i francesi Danièlou e de Lubac, gesuiti anche loro, che Paolo VI creerà poi cardinali, entrambi in passato soprattutto il secondo sanzionati dal Sant’Uffizio. La rottura definitiva avvenne nel dopo-Concilio, che de Lubac battezzò paraconcilio, e dove secondo lui e altri, Ratzinger compreso, si andò ben oltre quanto scritto nei documenti approvati, in nome dello spirito conciliare, che però non è un documento votato e neppure scritto. De Lubac racconta molto bene quel clima nei suoi diari conciliari, lamenta che «il Vangelo è stato ridotto (nel dibattito conciliare, ndr) a una dottrina sociale» e che la rivista Concilium, diretta da Rahner e alla quale avevano aderito all’inizio del 64 sia lui che Ratzinger e altri, era ormai «uno strumento di propaganda al servizio di una scuola estremista». Lasceranno Concilium nel 65 per fondare nel 72, anche con Hans Urs von Balthasar, Communio, che vedeva il grande evento conciliare come un misto di innovazione e continuità contro l’approccio molto più radicale, di rottura con il passato, di Concilium, sottoscritto con piena partecipazione fra gli italiani, tra gli altri, dal cardinal Giacomo Lercaro e ancor più dal suo braccio destro conciliare e ispiratore don Giuseppe Dossetti, fino a una decina di anni prima vicesegretario della Dc e spina nel fianco di Alcide De Gasperi.

Ratzinger e la profezia della crisi della Chiesa tra Concilio e liturgia
Benedetto XVI (Getty Images).

Il nodo della liturgia

Ratzinger doveva lamentare, prima di tutto, negli anni successivi, quanto fatto alla liturgia, totalmente cambiata a partire dal pieno abbandono del latino non deciso dal Concilio, ma dal paraconcilio. Per rendersi conto di quanto questo non fosse nelle intenzioni del padre del Concilio Giovanni XXIII basta leggere quanto egli aveva scritto sul latino, in un documento da molti anni ben poco citato, nella sua Costituzione apostolica Veterum sapientia, definita molti anni dopo (2007) dal cardinal Carlo Maria Martini uno dei messaggi ai quali più Giovanni XXIII era affezionato. Benedetto XVI ha avuto fama quanto meno imprecisa di conservatore anche perché nel 2007 cercò di ricomporre quella che a suo avviso era una frattura inutile e dannosa con la tradizione, consentendo alle comunità che lo desideravano di celebrare a volte anche in latino, col vecchio rito. Nel luglio del 2021 questa possibilità veniva semi azzerata da papa Francesco, sottoposto a anni di pressioni per arrivare a farlo. Un papa rovesciava quindi una decisione di grosso peso, nella logica della Chiesa, con il suo autore ancora in vita, che ne soffrì moltissimo (secondo quanto riferito da Monsignor Georg Gänswein, questa decisione aveva «spezzato il cuore» all’emerito). Poi, nei fatti, serva da esempio quanto accaduto a novembre 2022 nella diocesi italiana di Novara, con il vescovo che applicando le nuove regole ha proibito la messa in latino in alcune chiese del Verbano-Ossola a inizio mese e poi, con grande aplomb, sotto la protesta e le pressioni di numerosi fedeli, le ha riammesse, certamente con il placet vaticano, a fine mese. Ugualmente, a testimonianza del fatto che la convivenza fra i due papi, quello effettivo e l’emerito, contrariamente alla vulgata non è stata semplice ci sono molti episodi relativi ad esempio alle traduzione dei testi sacri, dove le regole ratzingeriane sono state ribaltate, e alla gestione dei dicasteri, con vari uomini di Ratzinger esautorati prima e messi poi bruscamente alla porta, i casi più noti quelli dei cardinali Mueller e Sarah. Per non parlare delle liturgie vaticane, assai più disinvolte.

Le differenti visioni di Benedetto XVI e Papa Francesco

Tutto alla fine si riduce, come sempre, in una Chiesa senza pace da mezzo secolo, alla lettura del Concilio. A parte gli ultra-destri che lo considerano un errore, tutti ritengono sia stato necessario. Poi si dividono, con vari gradi di enfasi, tra chi lo ritiene tradito da “destra” e chi pensa sia stato invece tradito da “sinistra”. Qualcuno dovrà dire prima poi una parola autorevole e chiara, o la Chiesa cattolica continuerà a lacerarsi. Papa Francesco si ritiene un figlio del Concilio, papa Benedetto sia pure non da vescovo ne fu uno dei padri o quasi; Bergoglio si muove con una certa prudenza, nei fatti, ma è con quanti sostengono che la salvezza della Chiesa è nella realizzazione del Concilio, in “più Concilio” come dice la formula d’uso; Ratzinger era con quanti chiedevano prima di tutto più chiarezza su quali furono davvero le decisioni conciliari, e restava critico di vari fatti compiuti del paraconcilio, in liturgia prima di tutto, avendo imparato da Guardini che la liturgia è «il centro vitale della Chiesa e della vita cristiana» e non può essere totalmente cambiata per decreto e messa in mani inesperte, o incapaci di equilibrio fra innovazione e tradizione.

Ratzinger e la profezia della crisi della Chiesa tra Concilio e liturgia
Benedetto XVI e Papa Francesco nel 2016 (Getty Images),

Un papa tra la fine del vecchio e l’alba del nuovo

Jean-Claude Hoellerich, arcivescovo a Lussemburgo, gesuita, cardinale molto vicino a Bergoglio e papabile numero uno secondo molti, ha dichiarato recentemente in un’intervista che senza il Vaticano II «la Chiesa sarebbe oggi una piccola setta ignota ai più». Ma i dati su chiese semivuote, chiese chiuse (a partire dal piccolo Lussemburgo) preti e frati in fuga in massa soprattutto negli Anni 70 e da allora sempre più scarsi, crollo dei battezzati e dei matrimoni, non dovrebbero lasciare tranquillo il Vaticano. Succede anche per troppo poco Concilio dicono i progressisti, e anche per troppo Concilio travisato dicono i conservatori. Qualcuno dirà qualcosa di più chiaro? Ratzinger al suo biografo tedesco che gli chiedeva nel 2010 se si sentisse più la fine del vecchio o l’alba del nuovo rispondeva: «L’una e l’altra».

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