Altolà. Prima che vi scappino battute gratuite sulla presunta incongruenza di un raduno degli alpini a Rimini, fra i gelati e le bandiere (che garriranno poco, visto che il meteo promette pioggia fino a domenica), vi faccio solo un nome: Nelson Cenci. «Il tenente Cenci, sorridente, mi aspettava in piedi nella sua divisa pulita e con il passamontagna bianco risvoltato intorno al capo come il turbante di un indiano»: così lo racconta Mario Rigoni Stern nelle prime pagine del Sergente nella neve, il più celebre memoriale della ritirata di Russia. Cotanta citazione vale quanto una medaglia per Cenci, alpino di Rimini classe 1919, compagno di scorribande giovanili di Fellini e Titta Benzi – un’altra, d’argento, se la guadagnò a Nikolaevka. Decorati come lui, altri due “alpini di mare” riminesi, Renato Parisano e Fernando Del Bianco.
Tra gli ‘alpini di mare’ i riminesi si sono sempre fatti riconoscere
Insomma, il “passaggio della stecca” da Milano a Rimini per la 93esima Adunata, rimandata per due anni causa Covid, è una cosa molto seria. Anche perché nel 2022 ricorrono il centenario del primo raduno degli alpini, il 150esimo della loro nascita e il centenario della sezione Bolognese-Romagnola. Reclutare alpini in tutta Italia divenne una necessità già nelle ultime battute della Grande Guerra, quando due anni di battaglie avevano falciato i soldati di montagna. E fra gli “alpini di mare” i riminesi si sono sempre fatti riconoscere. «Quando ci hanno fatto spogliare tutti avevano gli slip, noi eravamo gli unici con i boxer», racconta divertito il giornalista Stefano Cicchetti, arrivato al Car di Merano nel 1983 direttamente dalla Rimini di Tondelli, «loro in camerata ascoltavano hard rock, noi gli abbiamo fatto conoscere la new-wave». Anche Cicchetti – Battaglione Edolo X scaglione 83 – ha tirato fuori il cappello con la penna nera per mescolarsi alla folla di veci e bocia di ogni età e statura che da giovedì hanno pacificamente invaso le vie di Rimini. Nel look prevalgono bermuda, T-shirt, camicie a scacchi e barbe a profusione: se non fosse per gli inconfondibili copricapi, sembrerebbe un raduno di metallari. Già, chi sperava in suggestivi cori estemporanei a base di Stelutis alpinis e di Testamento del capitano finora è rimasto deluso: nella playlist degli alpini (e delle alpine: sono mille le donne arruolate fra le penne nere) prevalgono sempre i Led Zeppelin e i Queen.
Il Corpo nacque a Napoli e il cappello ha origini calabresi
Forse gli alpini sono sempre stati meno alpini di quel che credevamo. Per dire: il Corpo non è nato in Cadore o in Valcamonica, ma a Napoli, dove Vittorio Emanuele II firmò il decreto che li istituiva, il 15 ottobre 1872. E il famoso cappello proprio alpino non è, visto che ha origini calabresi. Per di più sovversive: lanciato dai rivoluzionari nei moti antiborbonici di Cosenza nel 1844, divenne sinonimo di ribellione e portarlo poteva costare l’arresto, nelle Due Sicilie come nel Lombardo-Veneto. Era il cappello di Ernani, il bandito nemico dei tiranni musicato da Verdi, e di Garibaldi, che lo alternava al kepì e al berretto da fumo. La penna, suggerita dal copricapo dei cacciatori, ancora non c’era, e fu aggiunta al momento della costituzione del Corpo degli alpini.
Essi lo fanno davvero, non è una leggenda! #Rimini #RadunoAlpini pic.twitter.com/sS7D6hNppE
— Lia Celi 🇪🇺🇮🇹 (@LiaCeli) May 6, 2022
Persino Rudyard Kipling rimase affascinato dalle Penne nere
E qui, in qualche modo, torna di nuovo in ballo la Romagna. Quando, dopo l’Unità d’Italia, entrò in vigore la coscrizione obbligatoria, tutte le reclute venivano inviate molto lontano da casa, per evitare pericolose comunelle tra militari e civili, i più temuti in questo senso erano proprio i romagnoli, repubblicani dal sangue caldo e dal grilletto facile. Ma della lealtà dei montanari non si dubitava: così per molti anni gli alpini furono l’unica truppa del regio esercito a restare sul proprio territorio, per presidiare le montagne dalle quali poteva calare lo straniero. Eppure, per una tragica ironia, il loro battesimo del fuoco non si consumò fra cime innevate, ma in Abissinia, dove li aveva spediti quel genio di Crispi, convinto che fra le Ambe e le Alpi non ci fosse poi tutta quella differenza. Risultato, Adua fu una carneficina di alpini, la prima di molte. Il legame con la montagna e con le virtù connaturate alla sua gente – la tenacia, lo spirito di sacrificio, la testardaggine, la solidarietà, e mettiamoci pure la capacità alcolica – sono uno dei motivi che rendono gli alpini speciali rispetto agli altri soldati. Già Rudyard Kipling, in visita al fronte italiano durante la Prima Guerra mondiale, ne era rimasto affascinato: «Grandi bevitori, lesti di lingua e di mano, orgogliosi di sé e del loro Corpo, vivono rozzamente e muoiono eroicamente». Negli ultimi 70 anni la morte eroica è diventata più rara, ma la vita spartana è rimasta una costante. Chi ha fatto il militare con gli alpini ha sempre in serbo qualche aneddoto a metà fra gli Stoici e il barone di Munchhausen, tipo la barba, congelata da un turno di guardia a 22 gradi sotto zero, che si stacca dal mento tutta d’un pezzo, o la lotta per il privilegio di marciare dietro il sedere del mulo per beneficiare del tepore delle sue flatulenze, a quanto si dice inodori (Il ministro Cingolani prenda nota: come fornitore di gas da riscaldamento, il mulo è la più simpatica ed ecologica alternativa a Putin).

Da Rigoni Stern a Revelli, gli alpini sono i soldati che meglio hanno saputo raccontarsi
Le Penne nere sono popolari anche chi non è un fan delle divise e detesta la retorica militarista. Non solo perché gli alpini sono il nerbo della Protezione civile in tutta Italia, o perché a tutti è capitato di cantare in coro su qualche pullman le loro struggenti canzoni piene di vin, di mama e di meglio gioventù che va sottoterra. C’entra anche la letteratura. Da Mario Rigoni Stern allo stesso Nelson Cenci, da Giulio Bedeschi a Nuto Revelli, gli alpini sono forse i soldati che meglio hanno saputo raccontarsi. I memoriali sulla spedizione in Russia – dove li aveva spediti quell’altro super-genio di Mussolini, convinto che fra la steppa e le Alpi non ci fosse poi tutta quella differenza – hanno trasformato una disfatta in epopea. Nelle pagine di Revelli, che era partito volontario, la ritirata dalla Russia diventa una ritirata dal fascismo, un’espiazione che per lui sarà preludio dell’adesione alla Resistenza (il vento che 80 anni dopo arriva da quelle stesse pianure sembra anche più gelido di allora. Nel 1993 l’Ana, l’Associazione nazionale alpini, aveva costruito un asilo nella città russa di Rossosch, sulle rovine del comando del Corpo d’armata. L’asilo, che era stato donato alla città come pegno di pace, è stato distrutto lo scorso aprile, e sul cippo che ricordava i caduti italiani ora c’è una Z bianca). Ma, a parte i fondamentalisti putiniani, c’è qualcuno cui un’adunata di alpini sta sulle scatole? Forse le specialità dell’esercito che non possono fare gli stessi numeri. Riunire ogni anno in una sola città migliaia e migliaia di penne nere da tutto il mondo (domenica saranno in 90 mila a sfilare sul nostro lungomare), più amici e familiari, è una cosa che riesce solo all’Ana. Brontolano anche i tanti riminesi che fino a domenica dovranno sopportare una viabilità stravolta dai percorsi di parate e fanfare. Forse storcono un po’ il naso anche gli astemi. Gli altri sorridono, applaudono, fanno selfie. E qualche ex bocia come Stefano Cicchetti sospira: «La naja per fortuna non c’è più, e un po’ alla volta spariranno anche i veri alpini, che senza la leva obbligatoria non hanno senso. A chi passi la stecca se non arriva un altro scaglione?».