France Culture è l’emittente culturale della radio pubblica francese. «Un luogo dove si viene a trasmettere per ambizione intellettuale e umanista», dicevano i suoi dipendenti. A settembre Libération ha pubblicato un’inchiesta sui soprusi subiti dai giornalisti, così la direttrice Sandrine Treiner, nonostante gli ottimi risultati, si è dovuta dimettere. Si parla di mobbing violento e «metodi dispotici e brutali», come riporta un pezzo uscito l’altro giorno sul Corsera, che si è occupato della cosa, facendo anche notare che da quando Treiner nel 2015 ha preso in mano le redini della radiostazione è riuscita a portarla dal 2 per cento di share al 3,1, ovvero 1,7 milioni di ascoltatori al giorno.
Di radio scrive sul Foglio, in prima pagina, anche Andrea Minuz, tracciando un ritratto esemplare dell’ascoltatore tipo della prestigiosa rassegna stampa mattutina di Radio 3, Prima Pagina, oasi felice di cultura e attualità capace di riflettere un’immagine irreale del Paese composta da un ascoltatore medio quasi sempre iper-istruito, sensibile, colto, mega-informato che quando alza la cornetta per chiamare la trasmissione lo fa, di sovente, non «per fare domande, ma più per sollevare un problema». «Le domande di Prima Pagina», scrive Minuz, «sono agli antipodi della comunicazione rabbiosa di Facebook, al lato opposto dell’impulsività di Twitter». Esempi come questi in definitiva lasciano ben sperare e trasmettono un briciolo di ottimismo nei confronti del prossimo, contrapponendosi al solito atteggiamento che quotidianamente descrive sui giornali, in tv e sopratutto sui social l’umanità intera come la peggiore possibile. Sarà perché in questi giorni decorre il compleanno di PopUp e la cosa mi ha reso più nostalgico del dovuto ma questi due articoli, letti nella penombra del mio salotto, steso sul divano con il plaid scozzese adagiato mollemente sulle ginocchia, mi hanno inevitabilmente portato alla mente i miei anni trascorsi in FM. Anni spesi a parlare in onda di letteratura, politica, arte, design, fenomeni underground e compagnia bella, passando, uno dopo l’altro, dischi jazz assolutamente ragguardevoli o bombe hip-hop, quasi sempre old school, che scovavo nei negozi di vinili o nei meandri dell’internet, ascoltando il reloaded di trasmissioni spesso inglesi o americane.
La formazione era questa: io e Alb come sempre al microfono e Lillo dall’altra parte del vetro, dietro al mixer. Osservati dall’esterno eravamo una coppia a prima vista male assortita ma dotata di una perfetta alchimia interna e un hispterissimo e barbuto regista che in pratica era uno dei dj tecnicamente più dotati in circolazione in città
Neanche a farlo apposta domani ho un appuntamento con Alb, il mio socio radiofonico, e con il dj Lillo Carillo, due fra i componenti del nucleo storico del programma Radio Attiva che una decina d’anni fa trasmettevamo sulle frequenze di Poli.Radio, la radio universitaria del Politecnico di Milano. La formazione era questa: io e Alb come sempre al microfono e Lillo dall’altra parte del vetro, dietro al mixer. Osservati dall’esterno eravamo una coppia a prima vista male assortita ma dotata di una perfetta alchimia interna e un hispterissimo e barbuto regista che in pratica era uno dei dj tecnicamente più dotati in circolazione in città. Per quattro anni questo strano terzetto prima dalla sede della radio in un’università e poi in studi semi-improvvisati all’interno di locali, bar, gallerie d’arte, birrifici e ostelli, ha condotto uno dei programmi radiofonici più amati e influenti nella storia della radiofonia milanese degli ultimi 15 anni. Una piccola epopea che, nel 2015, dopo essere passata dal sito del magazine musicale Rolling Stone, è approdata sulle frequenze FM di Radio Popolare con il nome di PopUp, trasmissione itinerante realizzata a bordo di un Westfalia del 1983, saldamente condotta sempre da me e Alberto e con in regia, al posto di Lillo, il nostro fedele sodale Serio Sound, un mostro di bravura e virtuoso della consolle.

Eravamo allo stesso tempo i curatori e i guardiani di uno spazio artistico in continua evoluzione. Tiravamo fuori argomenti e dischi, davamo voce a chiunque reputassimo interessante e condensavamo il tutto in un programma settimanale che per noi, per ciò che rappresentavamo e per i nostri gusti personali, erano il meglio del meglio. Eravamo un posto strafigo, che cambiava ogni settimana, dove poter andare a trascorrere del tempo e contemporaneamente scoprire sempre qualcosa di nuovo. Nelle interviste che in quel periodo rilasciavamo in giro alla stampa o ai vari siti di intrattenimento ad Alberto piaceva ripetere, per fare bella figura, che ci ispiravamo a Caterpillar, storico programma di Radio 2, ma io ho sempre pensato che noi due, in realtà, siamo sempre stati più simili a Stretch e Bobbito, due leggendari deejay americani che negli Anni 90 sulle frequenze di WKCR-FM, la radio della Columbia University, hanno contribuito, se non a formare, quantomeno a consolidare il gusto musicale hip-hop newyorkese. The Source Magazine ha nominato The Stretch Armstrong and Bobbito Show il miglior programma hip-hop di tutti i tempi, riconoscendo la natura all’avanguardia e aggressiva dello spettacolo e il suo ruolo nel lanciare leggende come Notorious BIG, Jay-Z, Nas ed Eminem, come altre icone rap del calibro di Mobb Deep, Brand Nubian, DITC, Big L, Wu-Tang Clan, Busta Rhymes e molti altri. Noi abbiamo fatto la stessa cosa raccontando semplicemente, invece che l’hip-hop, Milano. Una certa Milano che piaceva a noi. La Milano finest. È complicato quando per molto tempo fai un lavoro come questo, di colpo non farlo più. Qualche settimana fa un amico che è venuto a trovarmi al bar mi ha chiesto, in maniera un po’ ingenua ma parecchio genuina: «Adesso che non fai più la trasmissione, come fai a esprimerti?». «Che cazzo», gli ho risposto, «per come sono fatto io, la mia forma d’espressione è semplicemente la vita». Che sembra una risposta un po’ paracula e forse suona tremendamente esistenziale ma che però alla fine è semplicemente la pura verità. Detto questo il programma mi manca parecchio, come mi mancano i ragazzi, Alb e Serio Sound, con i quali negli ultimi anni abbiamo condiviso così tanto che spesso, quando mi guardo indietro, ci penso simili a una rock band che ha suonato insieme per molto tempo. Eravamo come i Beatles.
È complicato quando per molto tempo fai un lavoro come questo, di colpo non farlo più. Qualche settimana fa un amico che è venuto a trovarmi al bar mi ha chiesto, in maniera un po’ ingenua ma parecchio genuina: «Adesso che non fai più la trasmissione, come fai a esprimerti?»
L’incontro. Non vedo insieme Lillo e Alb nella stessa stanza da circa otto anni. La chiusura del nostro sodalizio all’epoca non si era consumata, diciamo, senza tensioni, ma come si dice il tempo è la miglior medicina per casi come il nostro, quindi sotterrata l’ascia di guerra abbiamo deciso di incontrarci per parlare di una proposta di lavoro e capire se c’è qualche possibilità di rimettere in piedi la band. Io e Alb non ci vediamo da metà luglio, cioè da quando la nostra trasmissione è stata ufficialmente chiusa, e mentre pedalo a bordo della mia Rossignoli color blu diplomatico verso Isola, penso che da quando ci conosciamo è la prima volta che questo accade. Sono le nove del mattino di un venerdì di fine gennaio, ma sembra lunedì, e la città ha un’aria vagamente irreale. Prendo con la bici l’elevatore che mi porta in piazza Gae Aulenti e mentre salgo mi specchio nella colonna riflettente dell’ascensore, imbacuccato nel mio costoso parka oversize verde marcio e mi vedo con la faccia esplosa, la barba di tre giorni e gli occhi gonfi di chi non ha dormito un cazzo. Passando di fianco a un’edicola vicino al negozio Nike mi viene in mente che potrei comprare una copia del Foglio di oggi dove ho scritto un articolo sul nuovo libro di Murakami e le sue t-shirt ma siccome in tasca non ho neanche un soldo e la cosa è fuori discussione la ignoro e proseguo oltre. Arrivo all’appuntamento con circa una decina di minuti di ritardo, scendo dalla bici e trovo già Lillo e Alb seduti fuori ai tavolini di un bar di via Borsieri ad aspettarmi, con un caffè davanti e un paio di brioche. «Ehi ragazzi», esclamo, «che sono un sentimentale lo sapete già, quindi prima di commuoverci tutti e tre evitiamo le stronzate e andiamo dritti al punto. Che storia è questa? Ditemi. Nuda e cruda. Senza fronzoli, solo i fatti: chi, che cosa, quando, dove e soprattutto quanti soldi ci sono sul tavolo». «Non ti vedo granché in forma amico», dice Alb alzando lo sguardo, «ti è venuta la barba ancora più bianca». «Anch’io ti voglio bene, hombre», rispondo, prima di abbracciarlo, sedermi con loro e ordinare un caffè doppio al ragazzo del bar. «Andrew», interviene Lillo, «siediti, abbiamo un mucchio di cose di cui parlare». Seduta al tavolo c’è anche ragazza, bionda, con indosso una specie di berretto da marinaio sovietico. Una giornalista di Esquire mi dicono. Una specie di Chiara Ferragni se Chiara Ferragni fosse alta un metro e sessanta e catatonica. «Lei è Gabriella», dice ancora Lillo, «ha l’incarico di venirmi dietro per una settimana per scrivere un pezzo dal titolo Vita di un deejay, non badare a lei». «Umm, bello», tossisco. «Sei proprio sulla cresta dell’onda».
All’improvviso Lillo si sporge verso di noi, si liscia la barba e ci domanda: «Vi interessa ancora fare la radio, o avete deciso definitivamente di buttare la vostra carriera nel cesso? La prima domanda alla quale dovete rispondere è questa. Se la risposta è sì io potrei avere qualcuno interessato a rimettervi nel game»
Alle sue spalle mi accorgo che c’è anche un tizio con una felpa mimetica della Charartt sopra una polo da rugby a righe blu e gialle con una microcamera in mano che riprende la scena. «Ehi, bella», dico, atteggiandomi tremendamente e accendendo una sigaretta che qualcuno mi ha dato. Ed è il segnale per far partire una serie di riprese che comprendono immagini del Bosco Verticale, della Torre Unicredit, di un camion di un’impresa di traslochi che passa e delle serrande chiuse di una galleria d’arte con una grossa insegna dove sopra c’è scritto KEY GALLERY. Tutti distolgono lo sguardo mentre la giornalista di Esquire scrive qualcosa su un piccolo taccuino. Entriamo negli studi di Shareradio, poi saliamo una rampa di scale e ci chiudiamo in uno studio al primo piano, lasciando fuori la giornalista di Esquire e l’operatore. Finalmente Lillo si toglie i grossi occhiali da sole avvolgenti prima di sedersi e dare inizio alla riunione. «Lillo, scherzi a parte, ho una giornata infernale. Ho, in ordine sparso: da scrivere due recensioni per due quotidiani, un appuntamento a pranzo con uno scrittore, devo concludere il racconto per la mia rubrica settimanale, preparare uno zaino per Venezia e andare in tintoria a ritirare il mio smoking per una festa alla quale sono stato invitato domani sera con Ofelia all’Hotel Danieli. Sono occupatissimo. Non-ho-tempo». «Andrew, sarò breve, io anche ho un sacco di cose da fare». Nello studio fa così freddo che si vede il fiato e quando metto le mani sui braccioli della sedia sembra siano fatti di ghiaccio. Alb sbatte due volte le palpebre, spazientito, rabbrividisce, tira fuori dallo zaino un termos con dentro del tè caldo, è esageratamente trasandato e una fila di bicchieri di champagne vuoti alle sue spalle riflettono la poca luce che c’è nello studio. Poi si infila in bocca lo spicchio di un’arancia che ha appena sbucciato, guarda Lillo negli occhi e gli dice: «Hai mai sentito l’espressione guadagnati il tuo 20 per cento? Parla. Siamo entrambi tutti orecchi!». All’improvviso Lillo si sporge verso di noi, si liscia la barba e ci domanda: «Vi interessa ancora fare la radio, o avete deciso definitivamente di buttare la vostra carriera nel cesso? La prima domanda alla quale dovete rispondere è questa. Se la risposta è sì io potrei avere qualcuno interessato a rimettervi nel game». L’immagine dopo è una schermata nera sulla quale scorrono i titoli di coda della puntata preceduti da una grossa scritta a caratteri cubitali che dice: TO BE CONTINUED.