Leadershit

Paolo Madron
29/01/2022

L'eventuale Mattarella bis sarà anche una soluzione rassicurante, ma inchioda l'Italia alla condizione emergenziale. E soprattutto sancisce l'inconsistenza dei capi-partito.

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La soluzione è rassicurante, specie rispetto a certi nomi che all’inizio giravano, ma essendo frutto di necessità e non di scelta non è mai una buona cosa. È emergenziale, consolatoria, non politica. Anzi, scongiurare Sergio Mattarella a restare dopo che aveva ribadito in ogni occasione la sua indisponibilità alla riconferma è un fallimento della politica, più nello specifico dei partiti che pretenderebbero di esserne gli interpreti. E riporta il Paese alla sua condizione emergenziale, che nella sospensione di sovranità propria di una Repubblica parlamentare trova la sua evidente manifestazione. D’accordo, c’è la crisi pandemica che ancora domina, e un Piano di ricostruzione che per l’ingente ammontare degli investimenti fa sì che l’Europa, ovvero chi mette i soldi, abbisogni di un suo fiduciario. Sta di fatto che il primato della politica, più volte acclamato come principio guida, ne esce a pezzi a favore di un potere tecnocratico che si impone non per principio autoritario ma semplicemente occupando i vuoti che gli vengono lasciati.

L'elezione del presidente della repubblica evidenzia la crisi dei partiti
Il segretario della Lega Matteo Salvini (da Fb).

Le sconfitte di Salvini, leader mai all’altezza, e di Conte, leader azzoppato

E i vuoti, in questa vicenda (o meglio, deriva) quirinalizia, hanno nomi e volti ben precisi. Quello di Matteo Salvini, interprete di un protagonismo goffo, mai all’altezza, la cui unica preoccupazione era intestarsi un ruolo, quello del kingmaker, di cui ha dato prova ancora una volta di non essere all’altezza. La caratura del capo della Lega non oltrepassa la soglia della propaganda, la fretta con cui si intesta soluzioni salvo a stretto giro smentirle è grottesca, la smania di apparire ingenuamente scoperta. O quello di Giuseppe Conte, che leader vuole essere senza che il suo partito unanimemente glielo riconosca. Del resto nella caotica dissoluzione di quello che è stato il primo partito italiano risulta quanto meno velleitario assurgere al ruolo di chi sintetizzando i conflitti tra le varie anime dei pentastellati aspira a guidarli. Conte ha di fronte un fondatore che di fatto, un po’ come accadde ad Alfano con Berlusconi, non gli riconosce il quid minando così alla base la sua azione. E una figura come Di Maio, molto più influente di lui nel controllo dei gruppi parlamentari, che non perde occasione di prenderne le distanze. La più recente e clamorosa viene dalla sconfessione di Elisabetta Belloni su cui l’ex premier era corso, subito dopo Salvini, a mettere il cappello.

Enrico Letta, segretario del Pd (Getty Images).

Il Pd di Letta resta il partito del ‘ma anche’

E non va meglio nemmeno a sinistra, dove Enrico Letta ha costantemente giocato una battaglia attendista, che se gli ha evitato i clamorosi e reiterati infortuni di Salvini, ha messo in luce la sempiterna incertezza di un partito che montalianamente si connota per quel che non è e quel che non vuole, con questo rinunciando a prendere qualsivoglia iniziativa in attesa di vedere quello che fanno gli altri. Il Pd sin dall’inizio della partita per il Colle si è guardato bene dall’ indicare con convinzione un nome, e su quello costruire la sua battaglia identitaria. Il Pd resta il partito del ‘ma anche’, e Letta un segretario che non sembra avere molta voglia di discostarsi da questa linea al ribasso. L’affannosa e patetica corsa dei succitati capi partito a intestarsi la soluzione Mattarella “per il bene del Paese”, che fino alla sera prima avevano escluso annunciando con sicumera l’elezione di un presidente donna e ancora prima di altre soluzioni lontanissime da quelle cui si è infine approdati, è solo l’ennesima rappresentazione farsesca e parodica di chi camaleontescamente si accoda all’umore del momento.