Una cosa è certa: Vladimir Putin non può lamentarsi di questo 2022 ormai agli sgoccioli. Non è morto di cancro come predetto da qualche cremlinologo, né pare ci siano stati progressi negativi nel morbo di Parkinson da cui, secondo altri esperti, sarebbe affetto. Non è nemmeno stato fatto fuori da una congiura di Palazzo, auguratagli dai nemici più cari, e ogni tanto, nonostante la salute cagionevole, il terrore del Covid e di essere preso a pistolettate da qualche ex amico mafioso che deve regolare conti risalenti al periodo criminale degli Anni 90 o fatto saltare in aria dall’intelligence ucraina, esce dal bunker presidenziale e gira in Russia e all’estero – in Paesi amici, naturalmente – quasi come se nulla fosse.

Il fallimento della Blitzkrieg
Certo poteva andare meglio. L’operazione speciale in Ucraina avrebbe potuto risolversi in tre giorni, se le forze speciali russe atterrate a Gostomel avessero subito fatto prigioniero e giustiziato Volodymr Zelensky entro la fine di febbraio, sostituendolo con un presidente fantoccio. Uno scenario un po’ troppo ottimistico, come quello conquistare l’intero Paese in tre settimane con meno di 200 mila uomini, per di più mal preparati e ignari di andare al fronte, ammesso e non concesso che questo fosse appunto il vero piano principale e non solo la prima opzione di un conflitto apertosi con la fine di un’operazione di diplomazia coercitiva finita male. Chissà cosa avevano pianificato realmente il generale Valery Gerasimov e il ministro della Difesa Sergei Shoigu. I quali, a loro volta, non possono lamentarsi visto che erano stati dati per eliminati nelle prime purghe putiniane, e invece sono rimasti vivi e vegeti affiancati negli ultimi mesi da Sergei Surovikin, nuovo comandante delle operazioni in Ucraina, e per quanto riguarda la logistica da Mikhail Mizintsev, noto come il “Macellaio di Mariupol“. Vero, l’offensiva ucraina iniziata in estate a Sud di Kharkiv sarebbe potuta andare avanti sino a Donetsk, con la liberazione da parte delle truppe di Kyiv del capoluogo regionale diventato nel frattempo capitale della sedicente e omonima repubblica popolare dal 2012; la centrale nucleare di Zaporizhzhia, occupata dalla forze russe dal marzo di quest’anno e secondo Zelensky sotto costante bombardamento dei russi stessi, avrebbe potuto essere presa da commandos ucraini. E il desiderio del presidente ucraino di terminare la guerra e iniziare trattative di pace avrebbe potuto essere soddisfatto se a novembre l’avanzata ucraina al Sud si fosse spinta sino a raggiungere Sebastopoli, sede della flotta russa in Crimea, liberando la penisola sul Mar Nero. Ma per questo c’è ancora tempo.

Putin al momento resta saldo al comando
Ma Wishful thinking e realtà sono due cose diverse. E anche la realtà è a volte una questione di prospettiva. Lo stato delle cose al Cremlino è al momento questo: Putin rimane dopo quasi 10 mesi di guerra saldo al comando di un Paese che, pur nelle difficoltà dovute da un lato alla situazione sul campo in Ucraina e dall’altro alle sanzioni occidentali che incidono in vari settori, rimane tutto sommato stabile, politicamente e, almeno per ora, economicamente. Soprattutto, al netto delle speculazioni, ogni tipo di reazione dell’Occidente all’invasione russa non ha cambiato la strategia del Cremlino: ai problemi sul fronte orientale e meridionale, Mosca ha risposto con la mobilitazione ufficiale e l’obiettivo dichiarato, seppure non ben definito, rimane l’allargamento del perimetro dei territori già occupati nel 2014. Così la tattica dei bombardamenti a tappeto per distruggere le infrastrutture energetiche lasciando gli ucraini al freddo e al gelo per costringere Zelensky al compromesso prosegue imperterrita. All’isolamento occidentale, Putin ha risposto con il previsto ripiegamento sulla Cina (che si è sfilata però da ogni tipo di supporto militare) e sul versante asiatico, dove le esportazioni di energia (e armi) rimangono comunque punti fermi anche se meno redditizi di quelle verso l’Europa. La guerra in Ucraina è una questione prettamente europea ed è proprio nel Vecchio Continente che gli effetti sono più pesanti, tra caro energia, ricerca di fonti alternative di approvvigionamento di gas e la gestione dei profughi. Il Cremlino ha voluto rompere sia con l’Unione Europea che con gli Stati Uniti. E anche lo storico asse atlantico ha cominciato a scricchiolare, almeno dal punto di vista commerciale. Difficile dire se per Putin il 2023 sarà meglio o peggio dell’anno che si conclude. Molto probabilmente non sarà tanto diverso: il conflitto cominciato lo scorso febbraio è solo il secondo atto di quello iniziato nel 2014 e non è difficile prevedere che i tempi per una soluzione saranno lunghi.