C’è un romanzo di Antonio Scurati di qualche tempo fa intitolato Il Sopravvissuto che inizia più o meno così: «Vitaliano Caccia ci massacrò a colpi di arma da fuoco il 18 giugno 2001, tre giorni prima del solstizio d’estate. Ci sterminò con una pistola semiautomatica, sparandoci a sangue freddo e a bruciapelo». Il libro narra la storia di uno studente ventenne, pluribocciato, che il giorno dell’orale della maturità uccide uno dopo l’altro i suoi insegnanti. Sette per l’esattezza: quattro uomini e tre donne. Non li ammazza tutti però, ne lascia in vita uno, il professore di storia e filosofia, Andrea Marescalchi, che diventerà il protagonista della vicenda. Il sopravvissuto, appunto. La storia del 16enne di Abbiategrasso che, dopo aver appoggiato sul banco una pistola finta, ha colpito in classe alla schiena una sua professoressa con un coltello da caccia me lo ha fatto tornare in mente. Scurati scrisse Il Sopravvissuto ispirandosi alla strage della Columbine High School dove, nel 1999, due studenti uccisero 12 ragazzi e un insegnante. Sulla stessa storia venne girato anche un documentario da Michael Moore, Bowling a Columbine, e un film di Gus Van Sant, Elephant, che tra l’altro vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Così mi domando, commentando la notizia al telefono con DFA, che cosa direbbero oggi Scurati, Moore e Gus del tipo di Abbiategrasso. DFA mi risponde spaparanzato su una sdraio, davanti alla sua piscina nella nuova casa di Sant Cugat, località a pochi km da Barcellona, nella quale si è appena trasferito con tutta la famiglia.
«Cazzo fradèl, è assurda questa roba di Abbiategrasso. Hai letto?», gli dico.
«No, cos’è successo?».
«Un ragazzino ha accoltellato una prof mentre era di spalle perché lo voleva interrogare».
«È morta?».
«Pare di no. Ma secondo me il tipo avrà delle notevoli seccature».
«Mah, al massimo lo bocciano».
«Sì, in effetti pare che abbia dei voti di merda. Comunque a parte gli scherzi questa roba mi ha flashato male».
«A questi livelli non ci saremmo arrivati nemmeno noi fradèl, anche le volte che ci davamo dentro, ed è capitato spesso, era pur sempre goliardia e mai, e dico mai, avremmo accoltellato una prof. Soprattutto alle spalle».
«Al massimo io facevo vedere l’uccello alla prof di inglese. Ma solo perché me la volevo scopare».
«Ma noi dai, faceva cacare».
«A me quella butterata eccitava, che ti devo dire».
Ride. E poi aggiunge: «Potresti scriverlo in un racconto, rimembrando gli anni d’oro e mettendo la nostra foto di classe di 2^ ma con delle bande nere per la privacy».
«Non c’è l’ho più quella foto. Te l’ho prestata e me l’hai persa, a dirla tutta».
«Ma che cazzo dici?».
«Sì, caro fratello, es verdad. Ricordo benissimo».
«No, no. Impossibile».
«Ricordo esattamente il giorno che te la diedi. Era appesa a casa mia in via Tiepolo».
«Eri tutto fatto».
«Tu volevi flexare con qualche figa. Forse addirittura con la tua prima moglie».
«Come cazzo parli? Cosa vuol dire flexare?».
«Ostentare, diciamo. Uno slang dei giovani del rap, mutuato dalla trap per l’esattezza. Comunque quella foto non c’è più. È introvabile. E la colpa è tua».
Durante l’estate del 1994, poco dopo gli esami di terza media, ancora non avevo deciso dove iscrivermi alle superiori fortemente indeciso com’ero se optare per il classico o scegliere invece lo scientifico, come prima di me avevano fatto sia mio padre che mio fratello. Alla fine, malauguratamente, andai allo scientifico perché come sempre se c’era da fare una scelta giusta io prendevo sempre la decisione sbagliata. Le opzioni durante quell’estate del 1994 erano due: da una parte c’era il liceo Volta di via Benedetto Marcello, dall’altra l’Istituto Gonzaga di Via Vitruvio. Scelsi un po’ a caso il bigio liceo scientifico statale Alessandro Volta, ospitato in un edificio, sorto in epoca fascista, inaugurato nel 1936 come “Casa del soldato”, all’interno del quale veniva data assistenza materiale e morale ai militari con una serie di attività ricreative e culturali. La struttura del Volta non ha i romantici archi del Leonardo da Vinci o la suggestiva fatiscenza dell’ex sede del Severi ai bastioni di Porta Volta e se l’architettura non è mai stata un gran punto a favore, c’è da dire che il liceo di via Benedetto Marcello ha da sempre trovato la sua forza nella propria storia e nelle persone. A partire dal 1980 fino al 2003 il bigio liceo scientifico statale Alessandro Volta è stato diretto dal prof Ferdinando Giordano, una delle persone più vicine alla qualifica di luminare che ho conosciuto nella vita, morto una sera di maggio del 2003 dopo essersi sparato un colpo al petto a casa sua a Milano. Rimasi al Volta tre anni, prima di venir cacciato con ignominia nel giugno del 1997, in seconda, dopo l’ennesima bocciatura.
In quella classe, non capisco ancora oggi il motivo, erano stati messi, tutti assieme, un gruppo di ripetenti, di cui alcuni addirittura pluribocciati, contravvenendo alla più classica delle regole, citata ad esempio nel film I soliti sospetti, ovverosia: «Mai mettere cinque delinquenti nella stessa stanza»
Sulla porta della nostra classe era affisso un cartello con sopra scritto a grandi lettere: “LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CH’ENTRATE”, e la scritta era tanto grossa e talmente colorata che risaltava all’occhio per tutto il corridoio. In quella classe, non capisco ancora oggi il motivo, erano stati messi, tutti assieme, un gruppo di ripetenti, di cui alcuni addirittura pluribocciati, contravvenendo alla più classica delle regole, citata ad esempio nel film I soliti sospetti, ovverosia: «Mai mettere cinque delinquenti nella stessa stanza». Ci facevamo chiamare La Di Bi Crew aka La Dimensione Bruciata aka Ladri di Barbour aka Ladri di Brioche, perché tutti dipingevano, a parte me, e all’epoca la maggior parte dei ragazzi più fichi facevano parte di determinate crew che noi idolatravamo come ad esempio i CKC, i TGF, i TDK e compagnia bella. Eravamo Phrat, Gosh, Nez, Goophy e Kareem. Cinque scappati di casa, disertori liceali professionisti, che si atteggiavano a superstar della droga. Io ero un po’ l’outsider del gruppo perché avevo frequentazioni trasversali che andavano dalle discoteche fighette del centro, tutte Raplh Lauren e Stan Smith, a compagnie oceaniche di mezzi balordi che si ritrovavano in determinati baretti violenti dietro Piazzale Loreto. Dei veri e propri Club des Hashischins composti, invece che da poeti, da pregiudicati, ultras assassini e malavitosi. In fondo perché “stare come sugli alberi le foglie”, quando si poteva stare in balaustra a lanciare sassi & molotov?

Se ripenso a tutte le scuole superiori che ho girato, tipo otto in otto anni di onorata carriera liceale, il Volta è sicuramente quella che sento più mia, quella dove (a mio modo) mi sono formato, quella dove ho stretto le amicizie che ancora oggi sono salde nel mio cuore e nella mia testa. Dodo & Nosama erano in classe con me in prima, DFA in seconda e anche il drugo Fede & Ale Cash frequentavano lo stesso bigio liceo di via Benedetto Marcello. Tutti sempre sconvolti, con l’alverman in tasca, emaciati e sempre pallidi come dei fogli Fabriano. Per le ragazze non c’era granché spazio, io venivo dalla delusione di un paio d’anni prima con Nicole, dalla quale dopo mesi di frequentazioni e corteggiamenti non avevo rimediato nemmeno un bacio. Un po’ tipo il protagonista di quel libro scritto da un giovane Enrico Brizzi intitolato Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Certo, qualche sbarba dal giro della discoteca pomeridiana ogni tanto saltava fuori, ma erano sempre relazioni fugaci, rapide, di poco conto. Poi arrivò Geraldine e il panorama cambiò radicalmente. Di un anno più piccola me l’ero ritrovata in classe l’anno prima, io già ripetente. Fu però in quel fantasmagorico anno di seconda, nel 1997, che i nostri cuori finalmente si spalancarono l’uno per l’altra. Quando eravamo soli passavamo pomeriggi interi di delizia a casa di sua madre in Largo Murani, ci coprivamo di baci mentre sul grosso schermo del suo salotto scorrevano le immagini dei film che noleggiavamo da Blockbuster: Daunbailò, Belli e Dannati, Trainspotting, Pulp Fiction, Quadrophenia, Point Break, tanto per citarne alcuni. Io poi leggevo una cifra e la mia cameretta in Via Dall’Ongaro, a casa di mia zia Pia, era già strapiena di titoli ragguardevolissimi come Meno di Zero, Le mille luci di New York e altre sciccherie del genere tipo i libri di poesia di Baudelaire e Rimbaud, che citavo a memoria per menarmela da intellettuale maledetto ogni volta che mi si presentava l’occasione. Erano letture che traghettavano verso una nuova consapevolezza da ribelle, e quando ne parlavo mi luccicavano gli occhi.
Provavo ripugnanza al pensiero delle pose da artistoidi dei miei amici e un odio sordo nei confronti della scuola e dei professori si impadroniva di me. Che se ne andassero tutti affanculo pensavo. Mio padre compreso.
Non pensavo più a Nicole, il cui rifiuto mi aveva talmente devastato che ogni tanto ci penso ancora: non mi voleva, non mi avrebbe mai voluto e forse rideva al ricordo di quando le avevo detto che l’amavo. Ma si sa, a 15 anni si dicono tante sciocchezze. A 17 invece, lanciato nella consapevolezza dell’adolescenza tutto scorre veloce tra pacchi di resine e fogli intrisi di sostanze allucinogene e al male di vivere non si pensa più tanto, si è sconvolti. Anche se, a dirla tutta ogni tanto lo sconforto prendeva il sopravvento e nausee impreviste salivano a disgustarmi: provavo ripugnanza al pensiero delle pose da artistoidi dei miei amici e un odio sordo nei confronti della scuola e dei professori si impadroniva di me. Che se ne andassero tutti affanculo pensavo. Mio padre compreso. L’estate del 1996 papà veniva arrestato a Roma alle sette del mattino a Piazza Navona e tradotto nel carcere di Regina Coeli, durante una calda giornata d’agosto, mentre io ascoltavo Jim Morrison in compagnia di una ragazza dagli occhi verdi di nome Ludovica, nella residenza estiva di famiglia a Rapallo. A Roma gli agenti gli avevano concesso di non essere ammanettato e di servirsi della sua Mercedes nera ultralunga con autista per il trasferimento immediato in carcere per incontrare il PM, che lo aspettava a un ingresso secondario insieme alla sua squadra di avvocati. Ad attenderlo sugli scalini davanti a Regina Coeli aveva trovato anche una ventina di giornalisti, che lo aspettavano come uno sciame di cavallette. L’immagine del telegiornale della sera sarebbe comunque stata un’inquadratura – due secondi in tutto – di mio padre, smunto e confuso, con una donna non identificata e leggermente sfocata agganciata al gomito. Rimase in prigione solo pochi giorni, poi uscì e fuggì in Bulgaria, dove poi rimase per oltre 20 anni. Ma questa è un’altra storia. La storia che invece ci interessa raccontare, in questa sede, è quella di un ragazzo adolescente, totalmente allo sbando, che in tre anni di liceo rimediava due bocciature e che per motivi disciplinari passava più tempo nell’ufficio del Preside che in classe. Ciò nonostante il ricordo che ho di Ferdinando Giordano, di cui lunedì prossimo decorre il trentennale dalla morte, è quello di un uomo formidabile. Autorevole più che autoritario, che cercava di capire i suoi studenti invece che giudicarli, come invece spesso accadeva con gli altri professori. Lunedì ci sarò anch’io alla commemorazione insieme a un mucchio di suoi ex studenti che si terrà nell’aula magna del bigio liceo scientifico statale Alessandro Volta.