Il principe di Bel-Air, perché il remake politically-correct non convince
Il remake prodotto da Will Smith della celebre serie che lo rese una star parla di razzismo e lotta di classe, abbandonando la leggerezza. Il Politically correct colpisce ancora dopo la nuova versione di Walker Texas Ranger.
«Questa è la maxi-storia di come la mia vita è cambiata, capovolta sottosopra sia finita». I fan delle sitcom Anni 90 conoscono a memoria le parole che Will Smith rappava nella sigla de Il principe di Bel-Air, serie che lanciò l’attore ora candidato all’Oscar per King Richard. Trasmessa dal 1990 al 1996, è fra le sitcom più popolari della storia televisiva americana ed è da poco tornata con un nuovo remake. Per quanto trama e personaggi siano identici, totalmente nuova è invece la chiave della narrazione, che qui assume un tono drammatico. L’obiettivo è focalizzare l’attenzione su concetti come razzismo e lotta di classe. Tanto attesa quanto criticata, la nuova serie – di cui lo stesso Will Smith è produttore assieme alla moglie Jada – non ha convinto quasi nessuno, attirando recensioni negative da parte di esperti e appassionati. In Italia, i primi tre episodi sono disponibili su Sky, che ha acquistato i diritti della piattaforma Peacock, produttrice della serie.
Il principe di Bel-Air, le differenze con originale e le recensioni negative
Al centro della narrazione si trova Willy, nei cui panni c’è il giovanissimo Jabari Banks, originario come il protagonista di Filadelfia e cresciuto ad Atlanta. Giunto a Bel-Air, inizia così la sua vita con gli zii Phil (Adrian Holmes) e Vivian (Cassandra Freeman) e i loro tre figli. Nell’enorme villa ci sono Carlton (Olly Sholotan), Hilary (Coco Jones) e Ashley (Akira Akbar) oltre al maggiordomo Geoffrey (Jimmy Akingbola). Il giovane Willy si sente subito un pesce fuor d’acqua, con la sua vita da emarginato a contatto con il cugino popolare per il suo successo negli studi. Inoltre, è continuamente costretto a fuggire da un pericoloso capo gang, sempre sulle sue tracce per ucciderlo. A differenza dell’originale, Hilary non è più una frivola appassionata di moda, ma un’influencer al passo con i tempi.
La versione drammatica del Principe di Bel-Air non ha però convinto i fan, tanto meno la critica. «Con un’ora per episodio, completamente privo di battute, la sitcom ha il tempo di costruire un intero mondo su razza e classe, ma finisce per essere meno astuta dell’originale», ha scritto il Guardian, il cui giudizio trova riscontro anche sul Washington Post che ha parlato di «serietà soffocante che ricorda solo quanto sia preziosa una commedia intelligente». Il Paìs parla di un remake politicamente corretto che non aggiunge nulla – anzi, sembra persino togliere – all’originale.

Seppur in tono scherzoso, anche il cult con Will Smith sapeva mettere al centro le disuguaglianze nell’America del tempo. Il quotidiano spagnolo sottolinea il rispetto di Willy per lo zio grazie alle parole di Malcolm X, ma anche la sua allergia alle lezioni di storia a scuola, dominate dai racconti sulla popolazione bianca. In un episodio, Willy e Carlton venivano persino fermati dalla polizia, convinta che due neri non potessero guidare un’auto di lusso senza averla rubata, sketch che Smith ha poi ripreso anche in Men in Black 3.
Non solo Bel-Air, nel mirino anche il recente caso di Walker Texas Ranger
Il remake del Principe di Bel-Air è però solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che trova conferma in diversi progetti. Secondo il critico cinematografico Daniel D’Addario, il precursore andrebbe ricercato nella trilogia de Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan del 2008. «Ha creato la sensazione che per dire qualcosa di importante bisogna puntare sulla serietà», ha detto al Paìs. Persino la tuta del pipistrello di Gotham ha abbandonato da allora i caratteri estetici più frivoli, puntando su un aspetto cupo e tetro.

Come il Principe di Bel-Air, anche un altro cult ha subito la stessa (s)fortuna. L’anno scorso è infatti uscito il remake di Walker Texas Ranger, serie Ann 90 con Chuck Norris nei panni di un rappresentante della giustizia dal pugno facile. Anche in tal caso, addio all’ironia e alle scazzottate gratuite per un’impostazione più seriosa e drammatica con il protagonista impegnato a superare l’omicidio della moglie. «Era più facile quando gli attori potevano menarsi senza pensare troppo», ha concluso D’Addario.