«Primo maggio, su coraggio», cantava Umberto Tozzi. Ma come sarà la Festa del lavoro tra 20, 30 o 50 anni? Avrà ancora senso o sarà una sorta di celebrazione postuma, tipo corona di fiori sul monumento ai caduti? Prima la globalizzazione che ha montato, smontato e rimontato le catene internazionali del valore e della produzione e ha causato lo sbriciolamento del mito occidentale della fabbrica. Quindi la terziarizzazione, l’allungamento dell’aspettativa di vita, l’inverno demografico, l’incedere impetuoso delle tecnologie e la quarta rivoluzione industriale. Infine lo sconvolgimento della pandemia e adesso l’iper-inflazione.
Addio all’operaio-fabbrica che porta la sua classe in paradiso e addio all’impiegato di fantozziana memoria
Addio all’operaio-fabbrica che porta tutta la sua classe in paradiso. Addio all’impiegato-fabbrica di fantozziana memoria. Anche il topos del call center di massa, che segnò gli Anni 90, si sta sgretolando. Ecco il lavoro atomizzato, sfarinato, remotizzato. E infine sparito. Il lavoro nei ritagli di tempo, per hobby. In Italia la base di popolazione attiva viaggia intorno ai 23 milioni di persone, ma si sta assottigliando con la glaciazione demografica e l’innalzamento della vita media. Secondo Istat il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due nel 2021 a uno a uno nel 2050.
Tra Great Resignation e del QuitTok
E poi, chi un lavoro ce l’ha sempre più spesso lo molla. Il fenomeno della Great Resignation colpisce anche il Bel Paese: 2,2 milioni di cittadini nel 2022 hanno detto addio a capi e colleghi, il 13,8 per cento in più rispetto al 2021. Una volta la decisione era comunque intima, pensosa, grave, ragionata: si scriveva una lettera o una mail dopo essersi consultati con parenti e amici. Adesso invece il grande passo finisce di frequente sui social. Dilaga pure in Italia il QuitTok, ossia l’abitudine di postare con un video su TikTok il momento in cui si rassegnano le dimissioni. Lo scopo? Forse beccarsi tante, virtuali pacche sulle spalle, lasciarsi confortare da manifestazioni di empatia. Sicuramente provare ad aumentare traffico e follower.

Il posto fisso modello Zalone non attira più
Comunque in molti, soprattutto i giovani formati, cercano dal lavoro qualcosa in più del vecchio posto fisso e salario sicuro. Il modello Checco Zalone sembra in crisi e la pandemia, con lo smart working, ci ha messo lo zampino. Durante il Covid ci siamo abituati a forme di impiego che spesso hanno reso più duro il successivo rientro in ufficio e hanno convinto qualcuno a lasciare per cambiare, in ragione del nuovo paradigma. Fantozzi e i suoi colleghi, con il lavoro agile, avrebbero goduto ancor di più a gabbare il padrone? Avrebbero piazzato i cartonati davanti alle webcam? Oppure avrebbero sentito la mancanza degli scatti felini fuori dall’ufficio al rintocco delle ore 17? Di sicuro, però, il Gran Lup. Mann. Fig. di Putt. Megadirettore Galattico non avrebbe concesso loro il lavoro da remoto.
Settimana di quattro giorni e l’altra faccia della medaglia: il part-time involontario
Nell’economia della conoscenza e delle nuove tecnologie, la produttività si sta disallineando dall’occupazione: non è più il numero di lavoratori e di ore lavorate a far crescere il valore aggiunto. Mentre aumenta il divario di status e di reddito tra chi conosce e usa i nuovi strumenti e chi no. Ecco allora che si fa di più in meno ore, si lavora meno per lavorare tutti e soprattutto per far lavorare i robot. Le sperimentazioni sulla settimana di quattro giorni si moltiplicano. Il lavoro stesso perde centralità nella nostra vita e dunque ha sempre senso dire che in esso risiede la nostra dignità? La Repubblica italiana continuerà a essere fondata sul lavoro? L’altra faccia di questo fenomeno, almeno da noi, è il boom del part-time involontario: il taglio del tempo dedicato all’impiego viene subìto e non scelto volontariamente.
In Italia vacanti 1 milione di posti di lavoro, la promessa all’incontrario di Berlusconi
In attesa comunque che la sinistra rifletta meglio sul rapporto tra occupazione e reddito, la destra distrugge il Reddito di cittadinanza, mentre tutto il mondo avanzato guarda a forme di basic income. Il governo sdogana così un circolo vizioso di disperazione e ricatto, vecchio e nuovo al tempo stesso, invece di costruire politiche attive che potrebbero rendere il Rdc inutile e superfluo (o comunque una breve parentesi) in un circolo virtuoso di formazione e ricollocazione. Ecco, appunto, la formazione è il vero problema. Competenze sempre aggiornate possono proteggere una quota di lavoro umano, ma forse non tutto. In ogni caso, è difficile per tanti tenere il passo con l’intelligenza artificiale, la robotizzazione e l’Ict in genere. Ormai il mismatch tra domanda e offerta tocca in Italia il 40 per cento: circa un milione di posti restano vacanti e si realizza così beffardamente all’incontrario la promessa berlusconiana del 1994. È il lavoro che non c’è. E se c’è, mancano invece i lavoratori. La carenza di manodopera ha un costo stimato in 15 miliardi di dollari annui per l’Italia. Il solo comparto del turismo lamenta un buco di 50 mila addetti, ma poi è difficile reclutare se un ristoratore offre contratti full time di breve-brevissima durata oppure a 5-600 euro mese.

ChatGpt e il rischio estinzione del lavoro intellettuale
Nei Paesi avanzati la crescita economica è sempre più jobless, ma gli esperti che scrutano l’orizzonte si dividono sul grande dilemma: le nuove tecnologie distruggeranno o creeranno più occupazione? Il World Economic Forum è ottimista sul saldo e con esso altri importanti think tank. Però taluni avvertono: occhio a quello che è successo in passato. Negli Usa, ad esempio, dalla Seconda Guerra mondiale a oggi gli addetti dell’industria sono passati dal 30 al 10 per cento proprio per l’introduzione delle macchine. Chi garantisce che non accadrà lo stesso anche nel terziario avanzato? Sicuramente nuovi lavori saranno generati, ma compenseranno quelli bruciati dall’innovazione tecnologica? Secondo gli esperti della Princeton University le intelligenze artificiali, compresa ChatGPT, sostituiranno nel tempo 52 abilità della specie umana. E rimpiazzeranno il lavoro intellettuale di figure come psicologi, giornalisti, insegnanti, avvocati. Due milioni di lavoratori della conoscenza potrebbero essere a rischio solo in Italia. Certo, è uno scenario che non si realizzerà domani: il grado di sofisticatezza dell’intelligenza artificiale non riesce a surrogare la verve e la personalità sfaccettata di un avvocato o il background e le sensibilità di un cronista attento. Ma quanto tempo ci vorrà ancora? Purtuttavia, è evidente che i lavori più a rischio non sono (soltanto) quelli manuali, bensì gli impiegatizi, le cosiddette mansioni “intellettuali ripetitive”, mentre l’Ai avanzata inizia ad aggredire le occupazioni creative.

Forse non serve più lavoro, ma lavoro pagato meglio
Il confine uomo-macchina sfuma. E sfuma anche quello tra lavoro e non lavoro, tra negozio e ozio, come sostiene pure il sociologo Domenico De Masi. Così appare datato persino il motteggio pungente di Gilbert Keith Chesterton, secondo cui «la parte peggiore del lavoro è ciò che capita alle persone quando smettono di lavorare». Finiremo quindi per non lavorare più? E sarà effettivamente una liberazione? In ogni caso è probabile che due terzi dei ragazzi che oggi sono a scuola opereranno un giorno in aziende o comunque su mansioni che ancora non esistono. Torna in mente Giovanni Trapani, alias King Kong, uno dei teppistelli maledetti della saga cinematografica Meri per sempre – Ragazzi Fuori, che in un italiano malfermo e con greve accento palermitano diceva: «Il lavoro nobilita l’uomo… e lo rende simile come una bestia». O forse il lavoro «debilita l’uomo», seguendo il filosofo Alfred Richard Orage che già 15 anni fa aveva previsto una situazione oggi lampante con l’iper-inflazione italiana: ossia il rischio che la differenza tra prezzi e salari provochi gravi rivolte sociali. Allora, forse, il nodo non è che serva più lavoro, ma lavoro pagato di più.