Dopo il dibattito estenuante sulle regole per le primarie, il Pd è riuscito per un soffio a scansare, almeno per ora, l’ennesimo tema che di sicuro non avrebbe scaldato il cuore di elettori e iscritti e cioè cambiare o meno nome al partito. Sì, ma la sabbia nella clessidra continua a scendere e a poco più di un mese dalle primarie che dovranno incoronare il nuovo segretario dem, l’offerta politica dei quattro candidati in corsa – Stefano Bonaccini, Elly Schlein, Paola De Micheli e Gianni Cuperlo – in termini di battaglie da portare avanti e temi identitari, è ancora una indecifrabile nebulosa. Tant’è che nel corpaccione del partito in molti cominciano a interrogarsi sull’appeal che, stando così le cose, potranno avere le consultazioni interne. «Non parliamo di paura», confessano a Tag43, «ma di preoccupazione sì, perché un’affluenza bassa ai gazebo sarebbe un disastro tale da mettere in discussione l’esistenza stessa del Pd».
Dai 3 milioni e mezzo che scelsero Veltroni al milione e 600 mila di Zingaretti
A onore del vero bisogna dire che ogni volta che si sono celebrate le primarie in casa dem, l’appuntamento è stato sempre accompagnato dal timore della partecipazione. Solo che, a sentire un big del partito che preferisce rimanere anonimo, «stavolta è diverso. Siamo stati noi per primi a investire tanto in questo congresso che nelle intenzioni dovrebbe essere ricostituente e rifondativo. Di conseguenza, se scendiamo sotto la soglia d’affluenza delle ultime primarie sarebbe un mezzo flop». L’asticella, insomma, dovrebbe essere almeno quella del milione e 600 mila votanti che hanno incoronato l’ultimo segretario eletto e cioè Nicola Zingaretti. Persino puntarla sull’affluenza che totalizzò Matteo Renzi da ex premier alle primarie del 30 aprile 2017 (1 milione e 800 mila persone ai gazebo) è troppo per il Pd di oggi. Il che, comunque, la dice lunga sulle ambizioni del partito che si sono via via andate ridimensionando col tempo. I tre milioni e mezzo di cittadini che il 14 ottobre del 2007 scelsero Walter Veltroni come primo segretario, insomma, sono ormai relegati alla storia, ma anche i 2 milioni e 814 mila che incoronarono sempre Renzi nel 2013 o i 2 milioni e 800 mila che l’anno prima diedero fiducia a Pierluigi Bersani fanno parte del libro dei sogni.

La soglia di ‘sopravvivenza’ si attesta tra i 900 mila e il milione di votanti
Certo, è vero pure che non si può ignorare il consenso attuale che racimola il Pd, come suggerisce il sondaggista Livio Gigliuto, vicepresidente dell’Istituto Piepoli: «La quota di elettorato su cui poteva contare alle precedenti primarie era più alta. È un dato che incide e che bisogna tenere presente. Fare delle primarie con un Partito democratico che si attesta adesso tra il 15-16 per cento è un conto, infatti, e farle con un Pd che si attesta intorno al 30 è un altro».
Secondo Gigliuto, quindi, «tra 900 mila e un milione di votanti ai gazebo non sarebbe un flop per il Pd. Anche perché c’è pure un altro elemento da tenere in considerazione e cioè il fatto che si è votato veramente da poco e coinvolgere gli elettori a distanze così ravvicinate non è mai facile». Sotto tale soglia, però, secondo il sondaggista, «il Pd non darebbe certo un segnale di grande vitalità, come del resto sta già accadendo in questi ultimi mesi».

Il nodo del voto online
Comunque, proprio perché lo spauracchio dell’affluenza c’è, dal Nazareno in molti hanno spinto – e continuano a farlo – per il voto online. «Sulla base del regolamento scritto, è necessario», racconta un esponente di lungo corso, «trovare i criteri più larghi possibile per favorire il voto online. Anche questo aiuterebbe ad avvicinarci all’affluenza delle ultime primarie». Una questione apparentemente risolta, ma che, dicono a Tag43 da ambienti dem, «in realtà tiene impegnata la Commissione nazionale per il congresso. Il confronto, ça va sans dire, è tra chi rappresenta la mozione Schlein, aperturisti al massimo, e chi rappresenta la mozione Bonaccini, più timidi». «Nessuna furbizia quantitativa», mette in chiaro subito Marco Furfaro, portavoce della mozione Schlein. «Noi abbiamo proposto anche il voto online perché pensiamo che di fronte a un congresso così importante sia necessario dare la possibilità di partecipare a tutti. Inclusi anziani e fragili, visto che siamo un partito di sinistra». Furfaro, per esempio, è tra quelli che non sono preoccupati dall’affluenza: «La candidatura di Elly sta raccogliendo entusiasmo, vediamo le sale piene. Il tema è accrescere la partecipazione, ecco perché bisogna aprire porte e finestre come stiamo facendo. Il Pd ha tanti difetti, tuttavia siamo un partito che si mette in discussione con un congresso riservato agli iscritti, ma pure agli elettori». Anche il senatore dem Enrico Borghi, che appoggia la corsa di Bonaccini, considera la questione dell’affluenza ai gazebo un falso problema: «Io sono convinto che ci sarà partecipazione soddisfacente, il nostro popolo è consapevole dell’importanza del momento e sa che non siamo per nulla in smobilitazione. Pure quattro anni fa si fece un dibattitto simile e poi la mobilitazione ci fu. Il tema, casomai», aggiunge, «potrebbe essere quello della non coincidenza tra il voto degli iscritti e quello delle primarie, da cui scaturirebbe un meccanismo di delegittimazione. Ma anche in questo caso è una preoccupazione in astratto, non credo succederà». Tutto bene, allora? Non proprio. E Borghi non si nasconde dietro un dito: «Il problema attiene alla proposta politica. Più è forte e più avremo la capacità di mobilitare elettori perché la gente va a votare quando capisce per cosa vota. Fino a ora c’è stato un dibattito esoterico e incomprensibile ai più. Adesso bisogna fare un salto di fase, parlare al Paese e dire su che basi si costruisce un Pd alternativo alla destra e non succube del Movimento cinque stelle, un Pd fatto di persone che fanno politica e non di funzionari di partito. Allora sì che mobilitiamo, altrimenti scaldiamo solo il cuore dei burocrati».

Mancanza di temi, di parole chiave e di differenze sostanziali tra i candidati
I temi appunto. Anzi, la mancanza di temi che, come conferma Gigliuto, può incidere sulla partecipazione: «Pesa il fatto che l’attuale congresso sia stato raccontato come molto più grande di quanto si stia rivelando. Per il momento il dibattito è molto concentrato su persone e regole e meno sulle proposte politiche». Con l’aggravante che il tempo stringe perché il 26 febbraio è alle porte. Borghi da questo punto di vista è fiducioso: «In un mese si può tranquillamente ovviare dal punto di vista della proposta, che si è attestata a un livello scadente fin qui». Dello stesso avviso il sondaggista dell’Istituto Piepoli: «Gli elettori del Pd sono molto affezionati al loro partito e sono continuamente in attesa di qualcosa che dia loro speranza. Anche in un mese c’è tutto il tempo per rivitalizzare la campagna, renderla più vivace con un tema portante, tre o quattro parole chiave su cui, però, i candidati si dividano. Cosa che», osserva ancora Gigliuto, «non è accaduta fino a ora. Non si scorgono eccessive distanze, infatti, tra gli aspiranti segretari e questo sì che è un problema perché impedisce di schierarsi» e di conseguenza «si riflette sulla motivazione a recarsi ai gazebo». Alla base dem, insomma, paradossalmente non resta che un auspicio: augurarsi che finisca il vero o presunto fair play di facciata che muove i quattro competitor, ma soprattutto i due favoriti e cioè Bonaccini e Schlein. Uno scenario che, per esempio, a Gigliuto pare più improbabile: «Se dovessi fotografare la situazione del momento vedrei più un ticket tra i due che non un colpo di scena in grado di contraddistinguerli. Anzi», azzarda, «chissà che una ‘pax democratica’ non faccia bene al Pd, visto che non stiamo parlando di una campagna elettorale particolarmente di contrasto…».