Una terapia di conversione per convincere ragazzi e ragazze gay a mettere in discussione il proprio orientamento per dimostrare di meritare l’amore di Dio. Non è il soggetto di un inquietante episodio di Black Mirror ma il tema affrontato da Pray Away, documentario targato Netflix in uscita oggi. Diretto dalla regista esordiente Kristine Stolakis e prodotto da Ryan Murphy, firma di alcune delle più acclamate serie tivù degli ultimi tempi (da Glee ad American Horror Story, passando per Pose, Ratched, e il più recente Halston), Pray away è un viaggio nella storia di una sconvolgente pratica portata avanti, negli anni, da organizzazioni cattoliche guidate da leader gay “pentiti”.
Violenze e pressioni su oltre 700 mila statunitensi
In 100 minuti, attraverso testimonianze dirette e filmati di repertorio, il film racconta i trattamenti, le sessioni di counseling e le pressioni che, negli Stati Uniti, oltre 700 mila membri della comunità LGBTQ+ sono costretti a subire quando vengono spinti, da familiari o amici, a mettere in discussione il proprio orientamento. «La terapia di conversione ricorre alla psicologia e alla religione per convincere una persona gay, lesbica o transgender a rinunciare alla propria identità per assicurarsi l’approvazione divina», ha spiegato la regista al Guardian. Ispirata dalla storia di uno zio, sopravvissuto al trattamento ma condannato a soffrirne le conseguenze per il resto della vita, tra ansia, depressione e disturbi ossessivo-compulsivi, Stolakis ha scelto di focalizzare la sua indagine su un’organizzazione in particolare, la Exodus International, non profit fondata nel 1976 da quattro cristiani evangelici e, da allora, in prima linea nel diffondere l’eterosessualità come unica via percorribile. Messaggio propagandato da molti dei suoi membri, ex omosessuali che dichiarano di aver cambiato rotta per liberarsi dal senso di vergogna e confusione che li tormentava. «Attraverso le interviste, si capisce chiaramente come il movimento inganni le personalità più deboli con una promessa di speranza fasulla, che costringe a mettersi in discussione per adattarsi a un canone determinato», ha aggiunto Stolakis. «Questi leader manipolano psicologicamente l’interlocutore, inculcandogli un modo di pensare che lo perseguiterà in eterno, soprattutto se deciderà, in qualche modo, di allontanarsene. Ecco perché, tra i ‘pazienti’, molti pensano al suicidio. Soprattutto tra i giovani».

Le storie di Jeffrey e Julie
Oltre alle figure del co-fondatore di Exodus Michael Busse (che abbandonò tutto nel 1979) e dei portavoce del Family Research Council, gruppo fondamentalista che si batte per la tutela dei valori della famiglia tradizionale, Pray Away esplora anche le storie di chi è stato costretto a iniziare la ‘cura’ e di chi, invece, ha scelto volontariamente di sottoporsi al trattamento. Come Jeffrey McCall e Julie Rodgers. Il primo, quasi all’inizio del documentario, parla apertamente dell’esperienza di detransizione e del suo passato da donna transessuale. Dalle sue parole, pare più che evidente quanto l’influenza di queste organizzazioni sia forte e radicata anche grazie ai social, che consentono di dare spazio e visibilità a eventi come la Freedom March, una manifestazione travestita da pride ma nata dal desiderio di celebrare la libertà di non essere più omosessuali e di essersi salvati dal peccato. Julie Rodgers, invece, è riuscita a uscirne più o meno indenne, riconciliandosi con quella parte di sé che la madre aveva tentato di soffocare. Nell’intervista, la ragazza racconta di come, appena 16enne e pochi giorni dopo il suo coming out, furono proprio i genitori a farle incontrare Ricky Chelette, ministro della chiesa battista di Arlington impegnato a indottrinare gli adolescenti sul modo migliore per cambiare la propria sessualità. Da un momento all’altro, si è trovata a confrontarsi con un ex omosessuale sposato, che tentava in ogni modo di convincerla che l’attrazione per persone dello stesso sesso che provava altro non era che il risultato di una carenza d’affetto da parte della madre e che, a lungo andare, avrebbe potuto provocarle danni neurologici. Un’esperienza spaventosa da cui si è allontanata con coraggio. «Oggi sono felicemente sposata con la mia compagna ma se ritorno a leggere il diario di quei giorni, ritrovo il dolore di una adolescente che credeva di essere una nullità, in balìa della paura che mi avevano inculcato con la violenza e di sensi di colpa che mi tormentavano giorno e notte».

Solo cambiando le singole mentalità si cambia l’intera comunità
Gli autori si chiedono di chi sia la responsabilità di un sistema così marcio. Non colpevolizzano né scagionano nessuno ma individuano una via di mezzo, che riconosce il dolo tanto ai singoli individui che appoggiano trattamenti e procedure del genere quanto alla società che, lasciando spazio a un certo sistema di valori, non tutela le libertà individuali. Soprattutto relativamente a scelte così personali come quelle legate alla sfera sessuale. «L’obiettivo del progetto è spingere il pubblico a lottare per un cambiamento che parta dai singoli per estendersi alle comunità», ha concluso Stolakis. «Chi si muove sulla scena ex LGBTQ+ trae potere dall’odio. E se continuiamo ad alimentarlo, la sofferenza degli innocenti non finirà mai».