«Li abbiamo presi con la forza, tutti in una notte: se in un villaggio c’erano 100 persone, bisognava arrestare 100 persone». Le confessioni di un ex detective della polizia cinese ora in esilio in Europa, rilasciate alla Cnn, gettano luce sui metodi con cui il governo di Pechino ha trattato, e continua a trattare, la minoranza musulmana degli uiguri nello Xinjang. Tirati fuori di casa, ammanettati, incappucciati e minacciati di morte in caso di resistenza. «Era una sistematica campagna di torture contro gli uiguri: ci ordinavano di prenderli a calci e picchiarli fino a riempirli di lividi, fino a quando non si inginocchiavano sul pavimento in lacrime».
Jiang, così ha deciso di farsi chiamare per mantenere l’anonimato e proteggere i membri della sua famiglia rimasti in Cina, ha dichiarato che tutti i detenuti venivano picchiati durante gli interrogatori, comprese le donne e i bambini dai 14 anni. «Usavamo metodi diversi. Alcuni utilizzavano catene di ferro con lucchetti, altri delle spranghe». E non solo, perché gli arrestati venivano appesi al soffitto, violentati, soggetti a scariche elettriche e al waterboarding. Le torture cessavano solo quando i sospetti confessavano i crimini, per poi venire trasferiti in altre strutture come prigioni o campi di internamento. La Cnn ha chiesto un commento alle autorità cinesi in merito all’intervista di Jiang, senza ottenere risposta.
La brutalità di Pechino contro gli uiguri dello Xinjiang
La sua versione conferma quelle di oltre 50 ex detenuti dei campi di internamento della regione, che hanno fornito testimonianze importanti ad Amnesty International per il rapporto, pubblicato a giugno, dal titolo Come fossimo nemici di guerra: l’internamento di massa della Cina, le torture e le persecuzioni dei musulmani nello Xinjiang. Mentre il governo cinese continua a negare l’esistenza del genocidio degli uiguri nello Xinjiang («voci messe in giro per secondi fini, vere e proprie bugie», ha detto il ministro degli Esteri Zhao Lijian), il dipartimento di Stato Usa stima che fino a 2 milioni di cittadini cinesi di quell’etnia siano stati internati nei campi dal 2017 a oggi. Per La Cina, i centri in cui ci sono detenuti uiguri sono campi professionali, di de-radicalizzazione e necessari a combattere il terrorismo e il separatismo.
La campagna “Colpire duro” della Cina contro gli uiguri
Lanciata nel 2014, la campagna Colpire duro ha promosso un programma di detenzione di massa delle minoranze etniche dello Xinjiang, in base alla quale si potevano arrestare donne che indossavano il velo, uomini con la barba lunga e coppie con troppi figli. Jiang ha anche mostrato il documento ufficiale con cui il governo invitava le altre province a unirsi «nella lotta al terrorismo», nell’ambito dell’iniziativa Aiuto Xinjiang con cui sono stati reclutati, dalle zone limitrofe, 150 mila assistenti di polizia. Jiang, che ha partecipato alla campagna, ha ricevuto uno stipendio doppio. La regione è stata trattata come una vera zona di guerra, e agli agenti erano forniti i nomi delle persone da arrestare e mandare in prigione. A volte veniva organizzato un finto incontro con i capi dei villaggi per radunare quanta più gente possibile e procedere agli arresti di massa: in un anno, secondo Jiang, sono state detenuti in 900 mila tra uiguri e altre minoranze etniche.
L’obiettivo degli arresti era quello di ottenere una confessione, e per farlo venivano usati metodi brutali: «Alcune persone lo vedono solo come un lavoro, altri sono degli psicopatici», ha detto Jiang dei suoi ex colleghi. Tra le torture più comuni, le guardie chiedevano ai prigionieri di violentare i nuovi detenuti. Uno studioso uiguro di 48 anni, Abduweli Ayup, ha raccontato proprio questa esperienza, cioè di aver subito violenza sessuale da parte di una dozzina di detenuti, obbligati a farlo dalle guardie. Dopo poco più di un anno di detenzione, è stato rilasciato dopo aver confessato il reato di raccolta fondi illegali. Come lui, tantissimi altri che convivono ancora con quelle ferite.
Torture cinesi nello Xinjiang, i rimorsi di un aguzzino
Adesso, dalla sua nuova casa in Europa, Jiang vive con i suoi sensi di colpa: non dorme per più di due ore al giorno, e alla Cnn ha detto che, se si trovasse davanti una delle sue ex vittime, non riuscirebbe a sostenerne lo sguardo e scapperebbe via. «Sono colpevole, e spero che una situazione come questa non accada più. Spero mi perdonino, ma sarebbe troppo difficile per chi ha subito torture così». Per questo ha deciso di fuggire dalla Cina, deluso anche dal livello di corruzione estremo visto nelle fila del Partito comunista: «Fingono di essere dalla parte della gente, ma sono solo funzionari che vogliono acquisire sempre più potere in una dittatura. Sono andato via perché voglio stare veramente dalla parte del popolo».