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Perché si è riaccesa la polemica tra Tel Aviv e Varsavia sul ruolo della Polonia nella Shoah

In polemica con Varsavia, Tel Aviv ha bloccato il tradizionale viaggio degli studenti ad Auschwitz. Si riaccende così l’antica querelle sulle responsabilità polacche nell’Olocausto. Che divide la stessa opinione pubblica israeliana.

20 Giugno 2022 14:17 Marco Fraquelli
Perché si è riaccesa la polemica tra Tel Aviv e Varsavia sul ruolo della Polonia nella Shoah

È di questi giorni la notizia che il governo di Israele ha deciso di interrompere una tradizionale e consolidata consuetudine (quasi un rito) che si tramanda ormai da molti decenni: quella della visita, da parte degli studenti israeliani, al campo di sterminio di Auschwitz. Ogni anno, infatti, in estate, i diplomandi israeliani si recano in Polonia e varcano il tristemente famoso cancello in ferro battuto, che reca la scritta, altrettanto tristemente famosa, “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi), per «toccare con mano» la più straordinaria macchina da sterminio mai realizzata nella storia. La visita è considerata non solo educativa, ma fa addirittura curriculum.

Perché si è riaccesa la polemica tra Tel Aviv e Varsavia sul ruolo della Polonia nella Shoah
Studenti in visita ad Auschwitz (Getty Images).

La polemica col governo nazionalista polacco

Quest’anno, però, niente viaggio, il ministro degli Esteri Yair Lapid lo ha bloccato, in polemica con il governo polacco a trazione nazionalista che, ormai quattro anni fa, ha introdotto una legge che vieta ogni riferimento al coinvolgimento della Polonia nello sterminio nazista degli ebrei e prevede persino una condanna a tre anni di carcere per chiunque parli di Auschwitz, ma anche di Chelmo, Treblinka, Sobibor e altri, come di “campi polacchi” (lo stesso Yair Lapid, qualche anno fa, scrisse, in un tweet, che sua nonna era stata uccisa in Polonia dai tedeschi e dai polacchi). Per il governo polacco, insomma, deve essere molto chiaro: i campi erano fisicamente collocati in Polonia, ma la responsabilità dello sterminio spetta esclusivamente agli occupanti tedeschi. E per presidiare meglio la materia, sempre il governo ha chiesto a Israele di poter assistere alle lezioni impartite agli studenti prima e durante il viaggio, e di completare l’iter con una visita ai luoghi dedicati anche alle vittime polacche. Richieste considerate da Israele come irricevibili in quanto squallido tentativo di «riscrivere la storia».

La questione divide Israele

La questione divide l’opinione pubblica all’interno dello stesso Israele, e se il quotidiano di sinistra Haaretz denuncia il tentativo del governo di Varsavia di sviare l’attenzione sulle complicità cercando di accendere i fari sui rapimenti dei bambini polacchi poi mandati dai tedeschi nei campi di lavoro o usati per terribili esperimenti scientifici, sottolineando come cedere alle richieste polacche significherebbe esporre gli studenti israeliani «a una realtà complessa, in cui la stessa nazione che ha prodotto i persecutori ha sofferto sotto i nazisti», gli studiosi dello Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria dell’Olocausto, riconoscono che parlare di campi della morte polacchi offre «una rappresentazione sbagliata» della drammatica vicenda, anche se riconoscono che dei tre milioni di ebrei polacchi sterminati nel Paese, almeno 200 mila furono consegnati ai tedeschi dai loro concittadini.

Perché si è riaccesa la polemica tra Tel Aviv e Varsavia sul ruolo della Polonia nella Shoah
Il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid e il primo ministro Naftali Bennett (Getty Images).

La vecchia querelle sul ruolo della Polonia nella Shoah

La questione, tuttavia, non nasce oggi e non è nata nemmeno quattro anni fa. Già all’indomani della fine della guerra, qualcuno sollevò la questione (e non solo in Israele), e da allora gli storici dibattono sul ruolo, attivo o meno, che i polacchi avrebbero avuto nell’Olocausto. Così, se alcuni ricordano come la soluzione finale fosse un progetto attribuibile esclusivamente ai nazisti, mentre gli antisemiti polacchi si erano sempre limitati, si fa per dire, a promuovere l’emigrazione forzata degli ebrei (che rappresentavano quasi il 10 per cento dell’intera popolazione) o la loro ghettizzazione, e che, tra tutti i Paesi occupati, solo in Polonia gli invasori tedeschi adottarono provvedimenti drastici che prevedevano la pena di morte per i cittadini che avessero protetto anche solo un ebreo, altri sottolineano come gli occupanti trovarono nella società polacca un clima e un ambiente antisemiti già fortemente radicati, e dunque favorevoli. In questo senso, questi stessi storici sottolineano come il primato della Polonia nell’antisemitismo ne facesse una sorta di caso isolato tra le potenze occidentali, esponendola a una disponibilità – e una dipendenza – uniche nei confronti del Reich hitleriano.

L’antisemitismo «redentore»

A questo proposito, Saul Friedländer ha definito l’odio razziale nazionalsocialista per gli ebrei come «antisemitismo redentore», volendo sottolinearne due caratteristiche, anzi due valenze: quella di visione del mondo vera e propria, e quella di elemento fondante addirittura di una costruzione totalitaria dello Stato. Il fatto che la Germania nazista avesse potuto – specie con le leggi di Norimberga – dare sostanza concreta a questa visione del mondo e a questa costruzione politica aveva, in pratica, dato un imprimatur, aveva legittimato l’antisemitismo connaturato in molte comunità, specie nell’Europa orientale. E il fatto, poi, che nel 1938 anche l’Italia fascista avesse adottato una legislazione antisemita non fece che corroborare tale legittimazione, soprattutto agli occhi di quei regimi che, chi più e chi meno, guardavano al fascismo con simpatia, se non come vero e proprio modello politico.

Perché si è riaccesa la polemica tra Tel Aviv e Varsavia sul ruolo della Polonia nella Shoah
Un ritratto di Jozef Pilsudski (Getty Images).

Il ‘fascista’ Piłsudski

Per suffragare l’ipotesi di un retroterra fortemente antisemita che avrebbe predisposto i polacchi alla collaborazione con i nazisti, alcuni storici hanno incentrato la loro attenzione sul governo autoritario del maresciallo Józef Piłsudski, salito al potere nel 1926 con un colpo di Stato militare. Ovvio sottolineare come il ‘fascista’ Piłsudski non potesse che sostenere le pulsioni antisemite della Polonia, in particolare quelle dei movimenti più estremisti di destra. In realtà, è parere pressoché condiviso dalla maggioranza degli studiosi, che quella del maresciallo fu una dittatura militare piuttosto moderata, comunque non di stampo fascista in senso tecnico. Certo, Piłsudski non mancò di attuare azioni repressive, anche violente, nei confronti di qualche oppositore (si parla anche di almeno un paio di omicidi segreti), ma, complessivamente, il suo regime mantenne sempre una certa moderazione e una soglia di tolleranza, sia nei confronti degli avversari politici sia nei confronti della stampa, impensabili in altri regimi assimilabili. E certamente non fu antisemita, anzi, molti avversari politici lo accusarono di filosemitismo.

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Jozef Beck (1894 – 1944), ministro degli Esteri polacco (Getty Images).

L’antisemitismo di Beck

Non vi è dubbio, anzi, che la politica punitiva e repressiva del governo nei confronti degli ebrei si fosse fatta più decisa proprio dopo la morte del maresciallo (1935). Il Partito Nazionale Unificato espulse per esempio i membri ebrei, incoraggiando quindi la migrazione dei cittadini di religione ebraica. Il tutto mentre la crisi economica stava causando molte tensioni sociali, con agitazioni di piazza e scioperi la cui responsabilità veniva attribuita, per esempio dal cardinale di Varsavia, Aleksander Kakowski, a comunisti ed ebrei che, per l’alto prelato, erano una stessa entità. Lo stesso Vaticano, per bocca del cardinale Augusto Hlond, pur condannando i pogrom e le violenze contro gli ebrei, non mise minimamente in discussione il boicottaggio economico dei cittadini di religione ebraica. La politica antisemita venne quindi decisamente inasprita dal ministro degli Esteri Józef Beck (da alcuni indicato come primo responsabile, se non complice, dell’invasione tedesca della Polonia) un po’ per compiacere il Reich, un po’ per scaricare su un capro espiatorio le tensioni interne e le frustrazioni a livello internazionale. Nel 1937 vennero per esempio approvate leggi che limitavano il diritto degli ebrei all’istruzione universitaria, mentre l’anno successivo fu la volta della legge che consentiva la produzione e la vendita di articoli di devozione dei vari culti solo a chi avesse professato la religione corrispondente, cosa che, ovviamente, colpì soprattutto i numerosi ebrei che lavoravano in questo settore commerciale. E sempre nel 1938 venne approvata la legge sull’autonomia della professione forense che, al lato pratico, comportò una forte restrizione dell’accesso degli ebrei alla professione. In ogni caso, non vi è dubbio che l’antisemitismo propugnato dall’estrema destra non solo non fosse contrastato dalle forze meno radicali di governo, ma venisse addirittura incoraggiato. E come si sa, purtroppo, il peggio doveva ancora venire.

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