Ciclismo, la stretta di mano tra Pogacar-Vingegaard e le altre immagini simbolo

Stefano Iannaccone
24/07/2022

Dalla storica borraccia di Coppi e Bartali alla mano tesa da Vingegaard a Pogacar e il dito puntato al cielo di Houle al Tour de France. Fino all'espressione smarrita di Pantani a Madonna di Campiglio. Quando una foto fa la storia del ciclismo.

Ciclismo, la stretta di mano tra Pogacar-Vingegaard e le altre immagini simbolo

La borraccia di Fausto Coppi e Gino Bartali è un pezzo di storia universale. Capace di andare oltre la passione per il ciclismo, al di là del mondo dello sport. Sono i due rivali che, davanti alla fatica della scalata lungo il leggendario Col du Galibier, nel 1952, si passarono l’acqua per dissetarsi. Su quella foto, girano varie versioni. Chi fu il primo ad allungare il braccio? E come mai? Addirittura c’è chi avanza dei dubbi sul fatto che si trattasse di un atto di fair-play. Un’esegesi che però non riesce a scalfire l’istantanea che si è impressa nell’immaginario collettivo: gli acerrimi nemici che di fronte alla fatica compiono un gesto di cavalleria. Quel passaggio della borraccia che va oltre l’astio.

Ciclismo, la stretta di mano tra Pogacar-Vingegaard e le altre foto simbolo
Lo storico passaggio della borraccia tra Coppi e Bartali.

La lezione di Vingegaard e Pogacar al Tour de France

Da quella foto in bianco e nero è passato un bel po’ di tempo e si arriva agli screenshot dei giorni nostri. Esattamente fino alla mano stretta tra i due grandi protagonisti dell’ultimo Tour de France, il danese Jonas Vingegaard e lo sloveno Tadej Pogacar. Sono loro, questi due giovani, i simboli del rispetto che prevale sull’agonismo, anche quando in palio c’è la vittoria della più importante corsa a tappe. A Vingegaard non interessava anteporre l’ambizione alla correttezza: il suo avversario era caduto lungo la pericolosa discesa pirenaica del Col de Spandelles e non ha voluto approfittare della sfortuna altrui per blindare il successo. Così lo ha atteso fino a che Pogacar non lo ha raggiunto. Il Piccolo principe sloveno ha teso la mano per ringraziarlo, sinceramente colpito dalla correttezza del danese. Sancendo una delle immagini più iconiche della bicicletta, tanto che lo stesso Pogacar, sconfitto all’arrivo, ha detto: «Non posso perdere il Tour in un modo migliore».

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La caduta di Nibali all’Alpe d’Huez.

La caduta di Nibali all’Alpe d’Huez e la verità di Froome

La casistica di eventi simili è molto ricca ed è anche difficile compiere una selezione che possa essere esaustiva. Sulla stessa falsariga c’è un altro episodio, sebbene con un risvolto diverso: nel 2018 Vincenzo Nibali finì a terra, mentre stava scalando la leggendaria Alpe d’Huez. La causa fu il clamoroso impatto con una moto della Gendarmerie. Lo scatto immortalò i più forti scalatori di quella edizione, Chris Froome, Mikel Landa, Geraint Thomas e Tom Domoulin, allineati ad andatura ridotta. Tutto molto bello se non fosse per due aspetti: Romain Bardet scattò dopo poche centinaia di metri, rompendo la tregua, anche se si giustificò dicendo di non conoscere la situazione di Nibali. E soprattutto il giorno dopo Froome fornì la versione reale: nessun atto di lealtà sportiva, «Non abbiamo aspettato Nibali». Semplicemente era una fase di studio della corsa, con tanti saluti ai titoloni che elogiavano la correttezza del keniano bianco, confermando come anche le foto più chiare possano indurre in errore di interpretazione. Meno dubbi affiorano invece sul comportamento di Alberto Contador al Tour de France del 2010, quando ad Andy Schleck saltò la catena lungo il Port de Bales e il “Pistolero” spagnolo colse l’occasione, attaccando a tutta forza per mettersi alle spalle l’allora maglia gialla.

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Hugo Houle (Getty Images).

Hugo Houle e quel dito puntato al cielo

Le immagini storiche non sono comunque legate esclusivamente a momenti di fair-play reale o mancato, ma spesso anche a momenti toccanti. Come quando, il 21 luglio 1995, lo statunitense Lance Armstrong, ben prima delle note vicende che lo hanno riguardato, alzò le dita al cielo per onorare la memoria di Fabio Casartelli, morto tre giorni prima in seguito a una caduta. Per restare in tema di dediche commoventi, nell’ultima edizione delle Tour de France il canadese Hugo Houle ha potuto indicare il cielo per cercare il fratello, anche lui atleta morto durante un allenamento, dopo la vittoria conseguita. Forse non entrerà nella storia del ciclismo, ma le sue lacrime di riscatto lo meriterebbero.

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Marco Pantani a Madonna di Campiglio (Getty Images).

Dalle lacrime di Merckx all’espressione smarrita di Pantani

Tra le tante immagini iconiche, c’è quella del Giro d’Italia del 1988: si corse una tappa da tregenda. In fuga c’era l’olandese Johan Van der Velde, che scalava le rampe del Passo Gavia sotto una neve fitta, in maglia ciclamino (assegnata al leader della classifica a punti) a mezze maniche. Arrivò per primo in vetta, imbiancato dai fiocchi che venivano giù copiosi. Salvo poi doversi fermare in discesa per un principio di assideramento. E una foto, di lacrime, ha segnato come poche altre le storie del ciclismo: il pianto di Eddy Merckx la mattina del 2 giugno 1969 dopo l’annuncio della sua positività all’antidoping. Il Cannibale belga, capace di vincere su tutti i percorsi e qualsiasi tipo di corsa, era sul lettino dell’albergo disperato. Trent’anni dopo un’altra scena, non sulle strade da corsa, ha segnato la storia del ciclismo: Marco Pantani, con espressione scossa, accompagnato dai carabinieri con una serie di microfoni puntati addosso. Era la terribile mattina a Madonna di Campiglio, quando il valore dell’ematocrito del Pirata era così elevato da imporgli di non ripartire. Mettendo all’angolo le foto dei trionfi che avevano esaltato i tifosi.