Perché la serie di Danny Boyle sui Sex Pistols è un’occasione mancata

Michele Monina
25/09/2022

La narrazione di parte, tutta centrata sulla figura del chitarrista Steve Jones, e la quasi totale assenza della musica fanno sì che per quanto un buon prodotto la serie sulla band punk girata da Danny Boyle sia un'occasione sprecata.

Perché la serie di Danny Boyle sui Sex Pistols è un’occasione mancata

È finalmente arrivata la tanto attesa e chiacchierata serie che Danny Boyle ha dedicato ai Sex Pistols, titolo Pistol. «Abbiamo solo fatto una scopata». Partiamo da qui. Così, tanto per rendere l’idea. O meglio, tanto per non lasciare in sospeso l’impressione che quel che andremo ad affrontare sia un discorso che non prende una posizione.

 

 

Ho visto la miniserie prodotta da FX e mi ha lasciato piuttosto deluso, per più di un motivo. Non parlo di delusione rispetto alla messa in scena: Boyle è un regista talentuoso e non serve certo che sia io a sottolinearlo. Parlo di certi aspetti relativi alla storia raccontata, alla costruzione dei personaggi, alla trama. Per chiarirci: fosse stata una storia di fantasia immagino ora starei qui a dire che è un capolavoro. Così, dicono, non è.

Perché la serie di Danny Boyle sui Sex Pistols è un'occasione mancata o
Johnny Rotten e Sid Vicious in Pistol.

Boyle tiene conto solo della voce di Steve Jones

Andiamo con ordine. Mettiamo il caso che uno di noi decidesse, che so, di fare una serie su Spalletti, l’allenatore attualmente in forza al Napoli. Certo, ci sarebbe da chiedersi perché mai uno dovrebbe fare una serie su Spalletti, ma siamo nel campo delle ipotesi, non state lì a fare i sofisticati. Ecco, uno vuole fare una serie su Spalletti e come prima mossa decide di non tenere minimamente conto di quel che Spalletti ha raccontato della sua vita. Vabbè, dirà quell’uno che vuole fare la serie su Spalletti e ha deciso di non tenere conto della versione di Spalletti, se avessi tenuto conto della versione di Spalletti avrei fatto una agiografia, non una biografia dura e pura. Anche apprezzabile, quindi. Solo che, non tenendo conto della versione di Spalletti quest’uno decide di andare a sentire solo la versione di un tifoso della Roma quando Spalletti la allenava. No, scusate, esempio sbagliato. Perché la biografia di uno famoso raccontata da un uomo comune funzionerebbe pure, magari, un punto di vista insolito, originale, ordinario. Diciamo che nel fare una serie su Spalletti decide di andare a sentire solo la versione di Francesco Totti, a cui si ha da supporre Spalletti non stia proprio simpaticissimo, ricorderete tutti il finale di carriera vissuto in panchina, compresa l’ultima partita di campionato. E vabbè, dirà sempre quest’uno, tenere in conto la versione di Totti su Spalletti può dar vita a un biopic pepato, di quelli che lasciano discutere. Ci mancherebbe altro, magari, però, sarebbe un biopic non esattamente veritiero, o quantomeno un biopic tanto di parte quanto quello che avrebbe tenuto conto della versione di Spalletti, che sarebbe sì stato agiografico, ma sarebbe quantomeno stato esaustivo. Tanto valeva lavorare di fantasia. Ecco, Danny Boyle ha deciso di rendere omaggio all’epoca che, ha sempre dichiarato, è stata fondamentale nella sua formazione e nel farlo ha optato per tenere in conto solo la voce di Steve Jones, che è stato, a suo dire, il cuore dei Sex Pistols (con buona pace di Glen Matlock, che dei Sex Pistols è, insieme a Johnny Rotten, autore principe) e che in questa serie, diciamolo apertamente, esce un po’ meglio di come ce lo ricordavamo.

Perché la serie di Danny Boyle sui Sex Pistols è un'occasione mancata
Steve Jones in Pistol.

Jonny Rotten veste i panni dello stronzo ed egoriferito e Sid Vicious è il coglione eroinomane

Stando alle sei puntate di questa miniserie sembra che tutta la storia dei Sex Pistols ruoti incontrovertibilmente intorno a Steve Jones, che dei Pistols era il chitarrista, con Malcolm McLaren, manager e produttore oltre che geniale iconoclasta a vestire i panni del cinico approfittatore (ma meno di quanto non abbia fatto in realtà, a occhio). John Lydon, al tempo Johnny Rotten, nel ruolo del pazzo stronzo e egoriferito, senza però fare troppa leva sul genio che lo ha abitato; Sid Vicius in quello del coglione eroinomane, e su questo potremmo anche convenire; Glen Matlock in quello del nerd di passaggio, irrilevante; e Chrissie Hynde, colei che ha appunto pronunciato la frase da cui questo articolo ha mosso i primi passi: spettatrice adorante, follemente innamorata di Steve e spesso vogliosa delle sue attenzioni. Lei americana in terra di Albione, divisa a metà tra Steve e Nick Kent – battaglia un filo impari, a dirla tutta – noto critico musicale che quella scena, il punk, ha raccontato con sagacia altrettanto punk. Il risultato è una sorta di agiografia di Steve Jones, da poco fuori anche in Italia con la biografia da cui questa serie è tratta, che poco sembra rendere realmente omaggio a quell’epoca. E questo nonostante le ricostruzioni meticolose, i veri geni presenti in questa storia che rispondono essenzialmente ai nomi di Malcolm McLaren e Vivienne Westwood, da una parte, e Johnny Rotten dall’altra; nonostante un’ottima scelta di attori. Una storia che soprattutto tende a guardare con un filo troppa benevolenza al ruolo che il chitarrista ha avuto all’interno non solo della storia della band ma della musica tutta.

Perché la serie di Danny Boyle sui Sex Pistols è un'occasione mancata
Steve Jones e Chrissie Hynde in Pistol.

La musica è relegata in un angolo 

Certo, McLaren è presente, sempre raccontato con piglio negativo seppur a tratti affettuoso, lui che è stato un figlio di puttana genialissimo, come è presente Rotten, descritto come un pazzo furioso, troppo megalomane per aver a cuore il futuro della band (del resto la hit che i Pistols hanno tirato fuori, questo la serie lo racconta bene, doveva intitolarsi No future, e non God Save the Queen, intuizione questa tutta di McLaren. Perché mai avrebbe dovuto avere a cuore il futuro di alcunché?). Una storia di parte, quindi, e quella frase da cui siamo partiti, con cui Hynde ha sbolognato il racconto di Jones, che invece spesso si sofferma su furiosi amplessi tra i due, ci dice molto su quanto in fondo ognuno tenda a cantarsela e suonarsela da solo, quando si tratta di ricostruire ex post il passato. Una storia in cui manca quasi completamente la musica, relegata in un angolo, laddove ci si sarebbe aspettati una centralità quasi invasiva, se non invadente.

Perché la serie Pistol è una occasione mancata

Ecco, a parte il punto di vista assolutamente parziale – non aver coinvolto Rotten è stato evidentemente uno sbaglio, anche se suppongo che lavorare con lui non debba essere semplicissimo – e in assenza di adeguato spazio dato alla musica, ditemi voi se può mai funzionare una serie che vuole essere un tributo all’epoca punk. Certo, per il resto la ricostruzione storica sembra fedele, e Boyle sa come muoversi in fase di scrittura come di regia. Confesso che nonostante il fastidio dettato dalla partigianeria della trama mi sono a tratti esaltato per un racconto che comunque fa parte del mio bagaglio. Ma resta l’impressione di una grande occasione mancata. Una scacciacani scarica, invece di essere una pistola puntata in faccia al sistema. Peccato. Comunque Spalletti che nega a Totti l’applauso di San Siro, come Sid Vicius che si taglia con i cocci di una bottiglia rotta sul palco,  è molto più punk di Steve Jones e di qualsiasi altro personaggio posticcio di questa serie. Diciamolo a voce alta, magari Danny Boyle riesce a riscattare questo passo falso.