Dalla Via della Seta al caso Pirelli. Il dossier cinese continua a tormentare il governo Meloni. Se, in un primo momento, l’obiettivo dell’esecutivo sembrava essere solo lo smarcamento dalla Belt and Road Initiative, preferibilmente in modo da non generare terremoti diplomatici o stizzite reazioni da Pechino, adesso per il centrodestra è spuntato un nuovo, scottante banco di prova: il destino di Pirelli. Dal 2015 il Dragone detiene la maggioranza del gruppo grazie al 37,01 per cento in possesso del colosso di Stato Sinochem Group e al 9,02 per cento del fondo del governo cinese Silk Road Fund. L’italiana Camfin, controllata dalla Marco Tronchetti Provera Spa, ha nelle sue mani il 14,10 per cento della società, mentre il rimanente è spartito tra Longmarch (3,68 per cento), Brembo (6 per cento), investitori istituzionali (26,50 per cento) e altri soggetti (3,69 per cento). Come anticipato dalla Stampa, Pechino ora avrebbe intenzione di influire maggiormente sulle strategie e l’operatività del gruppo. Arrivando a metterne in discussione la governance con una tempistica sospetta, viste le incertezze italiane sulla Via della Seta e l’ostentato filo-atlantismo della premier nella questione ucraina.

Pechino in pressing con Sinochem per ottenere maggiore controllo su Pirelli
Il conglomerato cinese vorrebbe far adottare a tutte le unità del gruppo le linee guida diffuse dal XX Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC) «in materia di lavoro e talenti professionali, volte ad aumentare il livello di controllo politico e la composizione dei quadri dirigenziali», e avrebbe inoltre sollecitato «l’integrazione dei sistemi informatici delle controllate Pirelli in Cina con i sistemi di Sinochem per consentire la condivisione simultanea delle informazioni». Anche la nomina del Ceo, fin qui indicato da Camfin, è uno dei punti che Pechino intende ridiscutere. C’è chi sostiene che la mossa della Cina debba essere letta come un chiaro avvertimento indirizzato a Giorgia Meloni che vorrebbe tagliarsi fuori dal Memorandum of Understanding sulla BRI e chi, al contrario, sostiene che Pechino voglia semplicemente attivare le sue leve per sfruttare al meglio i vantaggi di possedere la maggioranza di Pirelli. Voci e indiscrezioni si susseguono in mezzo a mille dubbi, mentre il governo starebbe addirittura valutando di adottare il Golden Power. Il nuovo patto parasociale che coinvolge Sinochem è infatti finito sotto la lente d’ingrandimento. Roma vuole vederci chiaro, tanto che il comitato di coordinamento per il Golden Power alla Presidenza del Consiglio ascolterà in audizione il vicepresidente e ceo di Pirelli, Marco Tronchetti Provera, in qualità di numero uno di Camfin, dopo aver sentito i rappresentanti cinesi.

I dubbi sull’utilizzo del Golden Power
Di sicuro i rapporti tra Italia e Cina non sono più idilliaci come quando il Dragone entrò in Pirelli. «Era un altro periodo politico», spiega a Tag43 Alberto Forchielli, fondatore di Mandarin Capital che lo scorso anno ha lasciato il Paese. «Allora i cinesi erano graditi, mentre adesso non lo sono più. È cambiato il mondo in questi anni». L’imprenditore tuttavia mantiene qualche riserva sulla leva del Golden Power. «Personalmente, non ho capito come si applicherebbe, secondo quali modalità. Forse potrebbe modificare il patto di sindacato. Improbabile, invece, che possa esserci un’inversione delle percentuali tra i soci, perché vorrebbe dire che lo Stato compra quote del gruppo». Per Forchielli comunque «proteggersi dalle decisioni dei cinesi non è una cattiva idea». Questo perché «la Cina potrebbe obbligare Pirelli a fare investimenti sconsiderati oltre la Muraglia. Potrebbe succedere di tutto una volta che non dovesse più esserci la governance di Tronchetti Provera». Per questo, conclude, «dico che non è sbagliato approfondire la questione».

Non solo Sinochem: anche Cdp Reti è controllata per il 35 per cento da un colosso cinese
Le riserve sulle modalità di applicazione del Golden Power sul caso Pirelli sono più che legittime. Questo strumento normativo si applica infatti quando c’è il rischio che un’azienda strategica finisca in mani straniere, e non quando la società di fatto è già controllata da attori esteri. Bisognerà, poi, capire cosa contengono i documenti sottoposti al comitato di coordinamento per il Golden Power alla Presidenza del Consiglio. Se le criticità evidenziate dovessero essere fondate su argomenti poco concreti, allora tutto potrebbe risolversi in un nulla di fatto. Certo è che Sinochem è lo stesso gruppo che, entrando in Pireli otto anni fa, ha poi contribuito alla crescita dell’azienda impegnadosi a rispettare l’autonomia dei suoi manager. Il conglomerato cinese, grazie alla sua offerta, ha consentito alla società italiana un rilancio senza subire danni di alcun tipo. Adesso, la presunta richiesta di Pechino di avere maggior voce in capitolo metterebbe all’angolo Camfin e in discussione l’operato di Tronchetti Provera. Difficile dire se si tratti di rumors alimentati dal clima di diffidenza crescente nei confronti della Cina, oppure, se il rischio che il Dragone si appropri delle tecnologie Pirelli non mantenendo la promessa di garantire l’italianità e la continuità del management dell’azienda sia concreto. Fatto sta che ora il governo si ritrova a fare i conti con un dossier scottante che tocca i rapporti non solo diplomatici ma anche commerciali con il Dragone. La sensazione è che Meloni voglia ulteriormente dimostrare a Washington il proprio filo atlantismo, prendendo le distanze da Pechino su qualsiasi tavolo, dalla BRI a Pirelli. Questo mentre affiora già un altro nodo: Cdp Reti che gestisce investimenti in Terna, Italgas e Snam, e il cui 35 per cento è controllato da un altro colosso pubblico cinese, la State Grid Corporation of China, attraverso la State Grid Europe Limited. La premier, presto o tardi, dovrà decidere. E nel farlo, dovrà per forza di cose scontentare qualcuno. Scegliere il male minore potrebbe essere molto pericoloso.