La Cina “mangia” tutto il tonno del Pacifico Meridionale. È l’allarme lanciato oggi dall’Overseas Development Institute di Londra e rilanciato dal Guardian. L’attività ittica, molto spesso illegale, delle navi cinesi sta causando una crisi per le isole della zona oceanica, tra cui la piccola comunità neozelandese di Tokelau. Il poco pesce che resta a loro disposizione, infatti, non solo basta a malapena per sostenere l’intera popolazione, ma è insufficiente per ottemperare agli obblighi commerciali con l’estero.
L’equilibrio della pesca nel Pacifico
Nel corso dei secoli, le popolazioni native degli arcipelaghi del Pacifico avevano imparato a sfruttare le grandi quantità di tonno disponibili nelle loro acque, trovando un equilibrio alimentare ed economico e, inoltre, facendo sì che a nessuna famiglia mancasse il pesce in tavola. Fra tutti, spicca il sistema inati, che governa la pesca della comunità di Tokelau. I Grey hair (capelli grigi) – come vengono chiamati gli skipper – decidono il bersaglio della pesca, spesso individuato nell’abbondante tonno, usando la loro conoscenza dei fondali, delle maree e delle fasi lunari. Gli equipaggi partono a tarda notte e trascorrono circa mezza giornata in mare, prima di tornare in porto. Il pescato è, quindi, suddiviso per specie e dimensioni, venendo poi assegnato alle famiglie in base alle rispettive necessità.
I grandi esportatori di pesca nel Pacifico
In tutto il Pacifico, pratiche tradizionali come questa si svolgono accanto a enormi battute di pesca. La regione meridionale ha esportato 530 mila tonnellate di prodotti ittici nel 2019, con un guadagno stimato intorno a 1,2 miliardi di dollari. I maggiori paesi venditori sono stati Papua Nuova Guinea (470 milioni di dollari), Fiji (182 milioni), Stati Federati di Micronesia (130 milioni), Vanuatu (108 milioni) e Isole Salomone (101 milioni).
I principali acquirenti invece sono stati la Thailandia, con importazioni di frutti di mare dal Pacifico per un valore di 300 milioni di dollari, le Filippine (195 milioni), il Giappone (130 milioni) e gli Stati Uniti (100 milioni). Tali dati certificano come il commercio ittico costituisca un vero tesoro per le isole oceaniche, certificato dalla ratifica dell’accordo di Nauru nel 1982, volto a regolamentare le attività di pesca nell’area.
Le imbarcazioni cinesi un pericolo per l’oceano
Nel corso delle ultime decadi, però, la Cina ha messo la freccia, inviando flotte di pescherecci, capaci di catturare interi banchi con un solo passaggio. Un’indagine del Guardian sulle barche che operano nel Pacifico ha rilevato che le navi battenti bandiera cinese sono aumentate del 500% in dieci anni e hanno superato di gran lunga quelle di qualsiasi altro paese, tanto che 600 navi straniere su 1300 autorizzate a pescare provengono da Pechino.
«La Cina è una superpotenza della pesca», afferma Miren Gutierrez, ricercatrice associata presso l’Overseas Development Institute e direttrice dello studio. «Ha la più grande flotta in acque profonde al mondo». Il problema è che, come sostiene lo studio, buona parte dell’attività di pesca è illegale e non viene nemmeno dichiarata. A nulla sono serviti gli interventi del governo di Pechino nel tentativo di regolamentare la tratta, in quanto le navi hanno spesso spento i radar, divenendo così invisibili. Come sottolinea un rapporto del 2019 del World Resources Institute, ogni anno scompaiono 7,2 milioni di tonnellate di tonno, per un valore compreso fra i 4,3 e gli 8,3 miliardi di dollari.
«La maggior parte dei paesi in via di sviluppo non ha la capacità di reggere l’urto», ha affermato Transform Aqorau, ambasciatore delle Isole Salomone negli Stati Uniti. «La perdita per i paesi più poveri non si esprime solo in termini economici, ma anche per quanto riguarda le risorse, che ogni giorno sono meno accessibili».