Tutti intorno al Jobs act, uniti dal pentimento che diventa il leitmotiv del congresso del Partito democratico. In un dibattito, finora avvitato sulle regole e sui tempi delle Primarie, i candidati sono uniti dal comune denominatore: l’abbattimento della riforma principale varata dal governo Renzi, che è stata votata proprio dal Pd, compresa la maggioranza dell’ala bersaniana (con l’eccezione di alcuni) che all’epoca poteva contare su Roberto Speranza come capogruppo alla Camera. Una scelta di «lealtà», fu la giustificazione. Il provvedimento è rimasto intatto negli anni in cui i dem sono stati al governo, anche dopo le dimissioni dell’attuale leader di Italia viva: le uniche modifiche sono maturate dopo le sentenze della Corte costituzionale, in particolare sulla tutela e il ristoro del lavoratore in caso di licenziamento.

Il «milione di posti creati» secondo Maria Elena Boschi
Il dibattito congressuale si è trasformato in un esercizio di anti-renzismo, con il nome dell’ex Rottamatore che aleggia su Largo del Nazareno, nonostante abbia intrapreso un altro cammino politico da ormai oltre tre anni. Intanto il Jobs act ha dispiegato i propri effetti, con il «milione di posti creati», secondo la versione di Maria Elena Boschi. Un dato che viene desunto dalla crescita degli occupati nei primi anni della riforma, senza tuttavia considerare il quadro complessivo, quello di una crescita economica che ha potuto favorire le assunzioni.

Bonaccini non vuole inimicarsi troppo la corrente di Base riformista
Ma i numeri evaporano durante la campagna per le Primarie, concentrata sull’affondo tout court. Certo, ognuno tra gli aspiranti segretari del Pd ha le proprie sfumature. Stefano Bonaccini, il grande favorito per conquistare la leadership del partito, ha assunto una posizione meno diretta: «All’Italia serve un cambiamento profondo, radicale e complessivo, non basta quello di una singola norma». Dal punto di vista strategico è un modo per non entrare in rotta di collisione con la corrente di Base riformista, quella degli ex renziani capeggiata dal presidente del Copasir, Lorenzo Guerini, e da Luca Lotti, a lungo braccio destro di Renzi.

Per la Schlein è stato un errore che ha creato una «frattura profonda»
Elly Schlein ha invece avviato un’offensiva contro il Jobs act, facendola diventare quasi il perno della sua campagna congressuale: «È stato l’errore che ha provocato una frattura profonda con il mondo del lavoro e con i lavoratori che non si sono riconosciuti in quelle scelte», sostiene deputata, indicata come la principale sfidante per la segreteria. A suo vantaggio, sul tema, gioca la contrarietà ostentata fin da sempre sulla riforma: quando fu approvata non era in parlamento, ma era molto vicina a Pippo Civati che votò “no” a Montecitorio, condividendo quella scelta.

Anche Cuperlo e De Micheli sono per il superamento della riforma
Sulle stesse posizioni c’è Gianni Cuperlo, un altro che non ha dato il suo via libera al Jobs act, con lo stratagemma di uscire dall’Aula. E oggi ribadisce: «Quella misura, persino al di là degli effetti prodotti, ha incrinato un rapporto di fiducia con pezzi interi del nostro mondo». Infine, l’ex ministra Paola De Micheli chiede di andare oltre: «L’obiettivo di una forza riformista e di sinistra deve essere quello di scrivere un nuovo statuto dei lavoratori, anzi uno statuto dei lavori».

Simbolo del testacoda è Orlando, ministro con Renzi e Draghi
Insomma, un Pd che è convinto di aver sbagliato, ma lo fa solo ora che è all’opposizione del governo Meloni, che non risulta proprio interessato a battagliare contro la riforma voluta da Renzi. Negli anni al governo, nella scorsa legislatura, il Jobs act è stato scalfito solo dalla Consulta: nemmeno la parentesi dell’esecutivo giallorosso, il Conte bis, si è preoccupato di cancellare quel provvedimento. Il simbolo di questo testacoda è Andrea Orlando, oggi critico tenace della riforma, tanto che in vari interventi ha chiesto di cancellarla e nell’ultima legge di Bilancio aveva presentato un emendamento per abrogare il decreto legislativo sul contratto a tutele crescenti, l’architrave del Jobs act.
In assenza di proposte, ecco individuato il nemico politico
La proposta è finita nel nulla, ma contava il gesto. Eppure Orlando era ministro della Giustizia nel governo Renzi che lo varò e di recente è stato ministro del Lavoro del governo Draghi, senza aver mai messo mano alla misura osteggiata a parole. Così nell’assenza di proposte, il Pd si infila nella sua comfort zone: individuare il nemico politico. E in assenza di nuovi profili, ecco che in questa veste torna il solito Renzi.