Signore e signori, abbiamo un problema con il patriarcato applicato ai testi delle canzoni. No, non si può iniziare così, perché quel signore e signori, non bastasse la firma in calce al titolo, tradisce che a scrivere questo testo è un uomo: galante, che quindi antepone il “signore” al “signori”, certo, ma patriarcale, perché intento a fare mansplaining, o quantomeno in procinto di farlo. Resta comunque il problema col patriarcato applicato ai testi delle canzoni. Dunque ricominciamo. A farsi un giro sui social sembrerebbe che oggi ci sia un problema serio col patriarcato applicato ai testi delle canzoni. O almeno, che ci sia seriamente stato in passato e che oggi sia arrivato il fatidico momento in cui questi nodi arrivano al fatidico pettine. Che in effetti in passato i testi delle canzoni – non solo quelle italiane, sia chiaro, ma di quelle italiane si sta parlando di questi tempi – abbiano presentato una rappresentazione della vita assolutamente maschilista è un dato di fatto inconfutabile. A scriverle erano quasi sempre uomini, con una visione del mondo da uomini, anche nel momento in cui si trovavano a scrivere per donne, da sempre relegate al ruolo di interpreti: le belle voci di una volta. Ci sembrava normale che le cose andassero sempre così. Talmente normale che neanche ce ne accorgevamo, col risultato che certi testi oggi impraticabili, perché portatori di una visione appunto maschilista del mondo, erano dei classici, imparati a memoria da tutti, uomini e donne, e da tutti cantati, con l’ovvio risultato che quei testi maschilisti diventavano parte del nostro patrimonio culturale, seppur di cultura pop, influenzando in maniera subliminale il modo di pensare di tutti, uomini e donne.
Ti pretendo, un rapporto tossico dal punto di vista del carnefice
Senza star qui a girarci troppo intorno, per non rendere queste parole troppo vaghe, prendo per esempio il testo di Ti pretendo, da poco sviscerato in ogni suo passaggio dalla scrittrice Carolina Capria, sui social con il nome “l’ha scritto una femmina”, che nel promuovere un suo ebook uscito per Einaudi sul consenso, titolo Dalla parte di Cassandra: ebbene lei ha messo Raf, o meglio Gianna Albini che quel testo ha scritto, al chiodo. La canzone in questione, un vero successo pop di fine Anni 80, vincitrice di Festivalbar e tormentone nell’anno 1989 (stavo per scrivere “anno del Signore”, ma sarei risultato patriarcale anzichenò), presenta un rapporto tossico, o meglio le tesi di chi in quel rapporto tossico veste i panni del carnefice, e sottolinea come la costruzione del testo tenda a far empatizzare con il ragazzo non corrisposto da una lei che sta con un altro, ma che dovrà capitolare perché lui la pretende, lei è l’unico diritto che lui ha e via discorrendo.
Quanto avrà plasmato le menti di giovani uomini e giovani donne?
Tutto sacrosanto, a leggere quelle parole, e poco vale il concetto che quelle parole non erano state scritte per essere lette, ma per fare da testo di una canzonetta pop destinata più che altro a far ballare: Raf era campione della dance, da poco passato, ahilui, all’italiano. Il risultato, in effetti, è che quei concetti siano passati di bocca in bocca, finendo per plasmare chissà quante giovani menti, di uomini, di lì in poi convinti che l’amore si possa pretendere, e che non rispondere di sé se non si è corrisposti sia normale. Chissà quanto avrà influenzato anche le menti delle donne, pronte a capitolare di fronte a pretese maschili. Se volessi essere ancora patriarcale dovrei aggiungere a Gianna Albini la dicitura moglie dello storico autore Giancarlo Bigazzi, autore di tante hit comprese quelle di Raf, di Tozzi e in prima persona dentro gli Squallor, che tanti testi patriarcali hanno pubblicato: pensate a una canzone come Cornutone, che prendeva sì per i fondelli un rivale in amore della voce narrante, ma dando serenamente della poco di buono alla donna da loro contesa.
Cornutone invece era una canzone greve nei contenuti, ma con intenti satirici
Ecco. Questo il passaggio chiave di questo pezzo. Cornutone. O meglio, il motivo per cui Cornutone non sia passabile dello stesso trattamento di Ti pretendo, che comunque resta una canzone del 1989, quindi assolutamente cantabile oggi, in quanto parte di un repertorio del passato (stesso motivo per cui si può cantare e ballare a una qualsiasi sagra paesana i Watussi, dicendo “gli altissimi negri”, senza essere tacciati di razzismo). Perché Cornutone, come tutto il repertorio degli Squallor, era una canzone con intenti satirici, certo greve nei contenuti, ma cui non si possono applicare i medesimi metri di chi a quel campo non attinge.
Rapput di Bisio e Rocco Tanica prendeva in giro il sessismo del rap
Leggerne il testo come se fosse una storia raccontata seriamente, è chiaro, la decontestualizzerebbe ulteriormente, più di quanto già non si faccia leggendo col metro di oggi qualcosa accaduto anni e anni fa, finendo per andare fuori tema (come di chi volesse fare la parafrasi epica di un testo tecnico, o del manuale di istruzione di una lavatrice). Per questo, non solo per questo ma anche per questo, lascia sgomenti leggere, come è capitato ultimamente, le parole dello scrittore Christian Raimo su Rapput, canzone di un giovane Claudio Bisio scritta con un giovane Rocco Tanica, ancora dentro gli Elio e le Storie Tese. Era infatti un chiaro sfottò al canone rap di quegli anni, che voleva i testi intrisi di sessismo, come spesso è capitato nel rap, sia all’estero che in Italia: Bisio raccontava le vicende amorose di un lui mollato dalla sua lei che con la scusa di ritrovare se stessa con le amiche se ne va in un’isoletta greca e lì lo tradisce col più classico dei pescatori. Spoiler: il Put di Rap-put sta per puttana. Ecco, come si fa ad accusare di aver veicolato messaggi patriarcali, sessisti e incel un comico che stava appunto mettendo alla berlina chi quei messaggi veicolava, certo senza usare questi termini, entrati nel nostro paniere Istat solo ultimamente. Un po’ come pensare che Checco Zalone veicoli i pensieri di Luca Medici, che Checco Zalone interpreta. Esempio per altro calzantissimo, dal momento che spesso si leggono attacchi violenti, inconsapevoli della differenza tra personaggio e chi quel personaggio ha creato.
Allora anche Quello che le donne non dicono della Mannoia è un inno al catcalling?
Rapput non è una canzone che perpetra concetti patriarcali: semmai li smonta. Ti pretendo è una canzone che oggi, credo, non si potrebbe scrivere, perché oggi ci è chiaro che i rapporti tossici sono da stigmatizzare, anche se l’arte di suo dovrebbe essere comunque libera di essere amorale (direi che il pop sia arte è assodato, tocca capire se tutto il pop lo è). Ben venga un serio ragionamento su come certa cultura pop abbia contribuito a far calcificare alcuni concetti già assai radicati nella nostra società. Riscrivere il passato con la zappa, invece, non è operazione utilissima, o veramente finiremo per pensare che Quello che le donne non dicono, per anni canzone simbolo della Festa della Donna, interpretata da Fiorella Mannoia e per lei scritta da Enrico Ruggeri, sia una canzone che in tempi non sospetti inneggiava al catcalling, coi complimenti dei playboy visti come qualcosa cui continuare ad ambire in eterno. Comunque, Capria batte Raimo due a zero: il womansplaining vince.