Quella Pasqua a Portofino ci giocammo il titolo nobiliare a chemin de fer: il racconto della settimana

«Perché?», chiedo a Giorgio. «Perché ci sarà un piatto pazzesco cugino, perché ci manca il quarto e soprattutto perché sei di famiglia e noi questa sera ci giochiamo il titolo nobiliare». L'incredibile Pasqua del 2000 a Portofino e quella partita a chemin de fer: il racconto della settimana.

Quella Pasqua a Portofino ci giocammo il titolo nobiliare a chemin de fer: il racconto della settimana

Se fossi un romantico vi racconterei la Pasqua del 1995. A Moltrasio. Io e i mei cugini più grandi, Gian Mario, Giorgio e Cristina, sdraiati sul grosso divano a fiori del salotto, la sera tardi, a guardare una vhs pirata di Al lupo, al lupo di Carlo Verdone. Vi racconterei di me che, perdutamente innamorato, mi appoggiavo alla spalla di mia cugina e guardavo il film, sognante, con il suo profumo addosso, perso in un turbinio di sensazioni puramente adolescenziali. Vi racconterei di quando, i giorni successivi, mi sorprendevo ad annusare la polo verde bottiglia Ralph Lauren che avevo indosso quella sera, cercando di ritrovare l’odore di Cristina, e di quanto mi emozioni, ancora oggi, rivedere quel film, che non piacque a nessuno tranne che a me, e che, ogni tanto, metto su e riguardo, malinconicamente, pensando che, in fondo, quella fu l’ultima volta che passai una serata con i mei cugini tutti assieme. Cristina morì una notte di agosto di quattro anni dopo, a soli 29 anni, nel sonno, stroncata da un misterioso male.

Se fossi un romantico vi racconterei di come capii, proprio durante le vacanze di Pasqua del 1997, di aver perso la testa per la mia compagna di classe Geraldine che, partita per Sestri con la famiglia, mi aveva lasciato solo a Milano, spezzandomi il cuore e togliendomi il respiro. Il sentimento che provavo per Geraldine era un amore sciocco, ma per un po’ ho continuato a sognarla, la notte. Le sue spalle liscissime, il suo camminarmi di fianco e i baci furiosi sul collo che ci scambiavamo, mi hanno tormentato per parecchio tempo, perché in fondo è vero, come ho letto da qualche parte, che come si ama a diciassette anni non si ama più per tutta la vita. Poi con Geraldine finì malissimo perché io, la stessa estate, mi scopai a tradimento Giuditta, una mia compagna delle elementari, e per ripicca ebbi la geniale idea di andarglielo a dire. Anzi, a dire il vero, glielo scrissi in una lettera, vigliacco com’ero. Forse con il senno di poi però se ci penso bene, a conti fatti, non mi dispiacque affatto scoparmi Giuditta, perché come giustamente mi disse all’epoca DFA «quello che conta, fratello, nella vita è la Sapienza. E quella ce l’ha solo Giuditta, nell’ingoiarti l’uccello fino alle palle, gonfie come due uova pasquali, e nel farti venire sulla sua faccia». D’altronde a cosa servono gli amici se non a farti aprire gli occhi, e detto tra noi, Geraldine, il cazzo non lo succhiava nemmeno. Potrei snocciolarvi decine di storie come questa, magari facendo accurati resoconti pasquali di serate in discoteca, completamente ubriaco, aggrappato al microfono, trascorse urlando oscenità dalla consolle o in qualche pista da ballo, strafatto di xtc, tutto sudato, con gli occhiali da sole e le mani nei capelli. Ma non lo farò, perché la Pasqua che voglio raccontarvi regaZ è quella pazzesca del 2000, a Portofino, a Villa Cristina.

Se fossi un romantico vi racconterei di come capii, proprio durante le vacanze di Pasqua del 1997, di aver perso la testa per la mia compagna di classe Geraldine che, partita per Sestri con la famiglia, mi aveva lasciato solo a Milano, spezzandomi il cuore e togliendomi il respiro

La prima Pasqua del terzo millennio. Villa Cristina oggi sarebbe di proprietà di un noto armatore greco, George Procopiu, che l’avrebbe pagata quattordici milioni di euro e per rimanere indisturbato si dice abbia acquistato anche la villa confinante per altri 7 milioni di euro. A Portofino nessuno lo vede mai, ma chi l’ha incontrato dice che non passa inosservato: distinto, sulla sessantina, viaggia solo sul suo aereo privato o su un mega yacht con due piscine e, a terra, utilizza una limousine rigorosamente bianca. Un tempo però Villa Cristina (già di Arnoldo Mondadori, che era solito ricevere, nella grande sala con il camino, personaggi del calibro di Walt Disney) era del finanziere Franco Ambrosio, l’ex suocero di mio cugino Giorgio, personaggio leggendario e notevolissimo. I giornali di gossip dell’epoca ricamarono parecchio sul matrimonio del giovane conte Serbelloni con la figlia del faccendiere d’assalto, che si tenne, ça va sans dire, a Portofino, un pomeriggio di giugno, nella chiesa del Divo Martino, davanti a centinaia di invitati con codazzo di Rolls-Royce al seguito. Il ricevimento a Villa Cristina fu epocale, per sprechi e sfarzi, pettegolezzi e regali. C’era tutto il bel mondo dell’epoca: Lello Liguori, ex patron del Covo di Nord-Est, i Bassetti, Giorgio Falck, Anna Bonomi Bolchini, Maurizio Raggio con la contessa Vacca Agusta, il mitico Puny e gli inseparabili Gianni Rivera con il fedele padre Eligio. Questo per dirvi che, per un periodo, a Villa Cristina noialtri fummo abbastanza di casa e fu quello il motivo per il quale, la notte di Pasqua del 2000, partecipai a quella folle partita a carte.

Michael Jackson cantava Dangerous ed erano le 11 del mattino, o forse l’una o forse le tre e un quarto del pomeriggio. Eravamo tutti sdraiati in terrazza a prendere il sole, a fare canne d’erba allucinogena, a parlare al cellulare e io avevo incontrato Elettra proprio quella settimana. Era sdraiata su una chaise-longue a cuocersi al sole di aprile e io avevo la testa in fiamme per una sbronza del giorno prima, presa al Carillon di Paraggi, causata da una mezza dozzina di caipiroske alla fragola, mentre osservavo, in lontananza, mio cugino Giorgio e Maurizio Raggio spassarsela con due bionde mozzafiato, forse russe o lituane, che avevano beccato due ore prima alla Gritta. C’erano ragazzi dappertutto quel pomeriggio a Villa Cristina, un paio di rockstar che non conoscevo e un adolescente gay palestinese, con cui avevo fatto amicizia, che millantava di aver preso parte a una sassaiola a Hebron. In quel periodo, tanto per cambiare, con Lucilla andava da schifo, avevo 20 anni e mi più che altro mi consolavo con le minorenni, figlie dei massoni, che conoscevo in discoteca. In particolare, quella stessa settimana, ero rimasto colpito dall’esuberanza di Alice, una spregiudicata 16enne che nel suo salotto, in Via Conservatorio a Milano, mi mise per intero un dito nel culo, mentre mi succhiava l’uccello, procurandomi un sussulto mai provato prima.

Michael Jackson cantava Dangerous e Silvia, di fronte a me, una ragazza con i capelli rossi che conoscevo da quando ero piccolo e che mi era sempre piaciuta ma che non mi aveva mai cagato nemmeno di striscio, era sdraiata in modo tale che le vedevo l’ano e ogni tanto si infilava una mano sotto le mutandine per grattarselo, portarsi le dita al naso e annusarle soavemente. Fu in quel momento che si palesò mio cugino Giorgio, faccia sfatta, con indosso una vestaglia lucida di raso bordò tipo Hugh Hefner e una modella lituana al braccio, in cerca di caffè e di un po’ d’acqua, con il cazzo ancora duro che si intravedeva sotto la vestaglia e potevano essere le 11 del mattino, o forse l’una o forse le tre e un quarto del pomeriggio. Così mi avvicino con una canna mezza spenta in bocca e il cugino, prima di abbracciarmi e fare le presentazioni, mi dice: «Buona Pasqua cugino!», poi lo seguo in un atrio dal soffitto altissimo, e mi spiega che ieri sera alla Gritta ha organizzato una partita a chemin de fer con Falck e Ambrosio e gli manca il quarto, chiedendomi di partecipare.

La Pasqua del 2000 a Portofino e l'incredibile partita a chemin de fer: il racconto della settimana
La terrazza di Villa Cristina.

«Perché?», gli chiedo, tirando una boccata dalla canna. «Perché ci sarà un piatto pazzesco cugino, perché ci manca il quarto e soprattutto perché sei di famiglia e noi questa sera ci giochiamo il titolo nobiliare». «Dai cugino, non scherzare, e poi io non sono mica nobile, non ho nessun titolo da giocarmi, e anche volendo, non so nemmeno cos’è lo chemin de fer. So giocare solo a poker». «Anche tua mamma era nobile, quindi sei mezzo conte anche tu, esattamente come me, e poi ripeto, sei di famiglia. Le regole sono semplici, te le insegno appena finisco il caffè», dice il cugino, a denti stretti. E poi aggiunge: «Ci giochiamo l’Aston Martin di Ambrosio, questo è il patto. Una grande partita tra l’aristocrazia e la grande borghesia industriale. Non è fantastico? E poi cugino, ho promesso ad Agnetė che l’avrei scopata sull’Aston Martin, non posso tirarmi indietro adesso». Sorrido e lo guardo, rendendomi conto che è terribilmente serio e io sono troppo sconvolto per dire no, così lo seguo e 10 minuti dopo siamo seduti a un tavolo, in terrazza, con un mazzo di carte e il cugino non si è ancora tolto la vestaglia lucida di raso bordò tipo Hugh Hefner anche se sembra che finalmente gli si sia ammosciato il cazzo. Due tavoli di fianco a noi, un biondino abbronzato, che mi sta fissando da circa 10 minuti, finalmente decide di alzarsi, venire verso di me e dirmi: «Ehi, io ti conosco. Due anni fa a una festa a Santa Margherita, giusto?». «No, non ricordo», gli dico. E sono così pallido, cadaverico e stravolto, che potrei svenire da un momento all’altro.

«Perché?», gli chiedo, tirando una boccata dalla canna. «Perché ci sarà un piatto pazzesco cugino, perché ci manca il quarto e soprattutto perché sei di famiglia e noi questa sera ci giochiamo il titolo nobiliare»

Lo chemin de fer è attualmente una delle più diffuse varianti di Baccarà. È nato in Francia, dal Baccarà puro, e lo scopo del gioco è quello di formare, con l’aiuto di due o tre carte, un punteggio più vicino possibile a nove. Oggi viene considerato un raffinato gioco da tavolo, spesso appannaggio delle classi più elevate. Dopo la lezione mollo il cugino e torno a sedermi vicino a Elettra, e lei e Silvia, la ragazza con i capelli rossi che conosco da quando sono piccolo e che mi è sempre piaciuta ma che non mi ha mai cagato nemmeno di striscio, stanno parlando di Londra e degli esami della prossima sessione alla Statale. Lascio perdere la coca che ho in tasca e decido di rollarmi un altro spino d’erba quando Elettra si scoccia e mi chiede di andarmene con lei a fare un giro, così saliamo sulla sua macchina e andiamo a farci una doccia a casa sua, sulle colline sopra Santa, le Hills, come le chiamano da queste parti. Ho conosciuto Elettra tre giorni fa, anche se in realtà la conoscevo già di fama, perché per un periodo è uscita con uno dei miei migliori amici, Dodo, dalla quale agenda avevo sottratto il suo numero di telefono per cominciare un corteggiamento telefonico lungo e costante che è stato ripagato per l’appunto pochi giorni fa, quando ci siamo visti di persona per la prima volta al Sabot, entrambi in riviera per le vacanze pasquali.

il racconto sulla Pasqua di Tag43
Il ritratto di Gian Galeazzo Serbelloni.

Ogni tanto Elettra ride, ogni tanto fa cenno di prendermi sotto braccio, ogni tanto il cazzo mi diventa duro, finché non arriviamo da lei e io mi sdraio sul letto di camera sua mentre lei scompare dietro una porta a vetri e io mi spoglio mentre fantastico sul momento in cui acconsentirà di farsi legare al letto per farsi visitare dieci, cento, mille volte, dalla mia sensibile punta. Purtroppo non succederà nulla di simile perché, dopo un paio di minuti, Elettra torna dal bagno avvolta in un asciugamano bianco e si siede sul letto di fianco a me. Poi si toglie l’asciugamano e nel momento in cui anche lei rimane completamente nuda mi avvicino, ma lei si ritrae, apre le gambe e inizia a toccarsi, facendomi segno di fare la stessa cosa. Ubbidisco ma dopo un po’ smetto e faccio di nuovo il gesto di avvicinarmi ma lei mi blocca di nuovo e dice no, rimettendo la mia mano dov’era e ricominciando a muovere la sua. Quando sto per venire mi chiede di aspettarla che anche a lei manca poco e così accelera il movimento della mano e spalanca le gambe, riversa sui cuscini. Quando le vengo addosso sento un po’ di bruciore  e poi crollo sulle gambe giovani con la faccia appoggiata sulle sue spalle, paonazzo, rendendomi conto che non mi sono mai tolto gli occhiali da sole con le lenti graduate. Lei accende una sigaretta e mentre mi rivesto la osservo, snella ed elegante nei movimenti, mentre chiamo un taxi, con il telefonino stretto tra orecchio e spalla, perché si è fatto tardi e stasera c’è una partita a carte alla quale devo assolutamente partecipare.

Ambrosio, elegantissimo, con doppiopetto blu, pantaloni grigi e sciarpa gialla, vuole farla pagare a mio cugino e nonostante in Italia sia illegale vendere o cedere titoli nobiliari vuole portare via dalla facciata della villa di Moltrasio lo stemma della famiglia Serbelloni ed esporlo come un trofeo a Villa Cristina

A Villa Cristina un grosso tavolo, sotto a un bersot, che è un incrocio tra un gazebo e un pergolato, con una struttura in legno ricoperta da un gigantesco glicine, è stato adeguatamente preparato per la partita. Intorno ci siamo io, mio cugino Giorgio, Franco Ambrosio, Giorgio Falck e il mazziere, un tizio che si fa chiamare Pulcino, con indosso una giacca verde da soldato, che si vocifera faccia il barista a Milano, al Jamaica, e abbia trascorsi pesanti con certi giri della sinistra extraparlamentare. Mio cugino piuttosto sicuro di sé indossa un paio di jeans attillatissimi, ai piedi un paio di Stan Smith e una camicia bianca, elegantissima, aperta sul petto, con il collo alla francese slacciato. Tutto intorno, camerieri in livrea servono bicchieri di champagne, e a un certo punto spunta anche Betta, la figlia di Ambrosio, nonché ex moglie di Giorgio, arrivata due ore prima direttamente da New York. «Hai coinvolto anche il tuo cuginetto in questa pagliacciata», dice a un certo punto avvicinandosi all’orecchio di mio cugino, e poi prosegue, «fai veramente schifo». Nel frattempo la partita prosegue, senza particolari sussulti e l’oscurità inizia a calare sul golfo di Portofino. Ambrosio, elegantissimo, con doppiopetto blu, pantaloni grigi e sciarpa gialla, vuole farla pagare a mio cugino e nonostante in Italia sia illegale vendere o cedere titoli nobiliari vuole portare via dalla facciata della villa di Moltrasio lo stemma della famiglia Serbelloni ed esporlo come un trofeo a Villa Cristina. Una serie di otto lo portano tremendamente in vantaggio durante il corso della gara mentre io e Giorgio Falck siamo spettatori non paganti di questo duello all’ultimo sangue e osserviamo, con poco trasporto, le esperte mosse del mazziere che con la sua pala da croupier scopre le carte sul tavolo dopo averle tirate fuori dal sabot. Alle quattro del mattino siamo all’ultima mano e il cugino rilancia pretendendo sul piatto oltre all’Aston Martin di Ambrosio anche un week end pagato al Kulm, un hotel a Portofino Vetta, 400 metri a picco sul mare. L’ex golden boy della finanza accetta pretendendo a sua volta che Giorgio metta sul piatto anche un antico quadro di famiglia dell’800 con sopra ritratto Gian Galeazzo Serbelloni, più o meno del valore dell’Aston Martin. Il cugino ovviamente accetta. «Le jeu est fait», dice Pulcino. Le due carte salpano verso Ambrosio sopra il panno verde e la luce, filtrata dai grandi paralumi in raso, che prima gli sembrava così amichevole, ora pare quasi scolorirgli le mani mentre sbircia le sue carte. Nel frattempo il cugino guarda le sue. Una donna e un cinque nero. Pulcino solleva piano la carta facendola scivolare in avanti. Ambrosio ha un totale di sei. Giorgio un parziale di cinque. Le probabilità al momento favoriscono l’ex golden boy della finanza, ma ora è turno del cugino che lo fissa negli occhi, quasi senza guardare la sua carta mentre la scopre sul tavolo. È un quattro, che gli permette di arrivare a nove e chiudere la partita. Ambrosio è battuto e sbancato. Gioco, partita, incontro.

E mentre Dangerous di Michael Jackson suona dallo stereo di una macchina che ci passa davanti le immagini della partita sbiadiscono e io mi osservo dall’esterno, mentre seduto con Ofelia ai tavolini della veranda dell’Hotel Posta di Moltrasio, ordino due caffè, il giorno di Pasquetta di molti anni dopo. Cioè oggi. Quella Pasqua rimarrà per sempre negli annali dei miei ricordi anche perché durante quei giorni entrai in contatto con un paio di personaggi che, del tutto casualmente, in futuro, per un periodo, diventeranno i miei datori di lavoro: Maurizio Raggio alla Gritta di Portofino e Pulcino alla Belle Aurore di Milano. Franco Ambrosio morirà qualche anno dopo quella partita a carte, in assoluta povertà dopo un fragoroso fallimento, nella stanza di un Motel, sul raccordo anulare.

*I nomi e i fatti narrati sono frutto di fantasia.