In questi giorni si parla molto di un governo con la presenza dei leader dei partiti. Non discuto sul valore dei vari Silvio Berlusconi, Carlo Calenda, Enrico Letta, Giorgia Meloni o Matteo Salvini e mi scuso con coloro che ho dimenticato di citare, ma vorrei soffermarmi l’utilizzo della parola leader.
Questa, infatti, segnala ruoli e atteggiamenti del tutto opposti. A patto che abbia ancora un significato. Comprendo che definirsi leader attribuisca un quarto di nobiltà che non guasta mai. Ma le persone citate possono essere annoverate come segretari, presidenti, capi, fintanto fondatori e proprietari dei rispettivi partiti, leader proprio no.
Il complicato rapporto tra gli italiani e la lingua inglese
A tal proposito, forse a chi si qualifica come tale farebbe bene rileggere quelle stupende pagine sulla leadership che ha scritto William Shakespeare, messe in bocca a Enrico V e rivolte ai suoi soldati poco prima della battaglia di Agincourt. L’utilizzo improprio del termine leader segnale il complesso rapporto tra noi italiani e la lingua inglese. In pochi la capiscono, ancora meno la parlano, ma non c’è persona che, sperando di darsi una certa importanza, non la infili tra una parola e l’altra di una discussione.

L’apogeo del fenomeno si raggiunge nella qualificazione del ruolo professionale, dove si usano solo definizioni in inglese. La scelta si comprenderebbe se l’interessato lavorasse con l’estero o facesse parte di un’organizzazione multinazionale. Il fatto è che queste auto definizioni inglesi le troviamo anche impiegate da professionisti o aziende di ambito strettamente locale.
Smart working, il caso delle parole inglesi inventate
Inoltre, non solo deformiamo il significato dei termini inglesi, addirittura li inventiamo. Il caso più eclatante è lo smart working. Quando, se ricordo bene, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte pronunciò la parola per la prima volta tutti diedero l’impressione di capire di cosa stesse parlando. Siamo uomini di mondo, suvvia! Eppure si tratta di una definizione del tutto assente dall’inglese, ma che, paradossalmente, sta diventando una delle più utilizzate nel nostro Paese.
Come direbbe la celeberrima casalinga di Voghera (personaggio reso famoso da Beniamino Placido e qui citato senza alcun intento sessista) perché utilizzare una parola inglese quando c’è un equivalente italiano? Certo occorrerebbe conoscere l’italiano e qui sorge il sospetto che chi usa le parole inglesi non si muova poi così bene con la nostra lingua. Parlare un corretto italiano, scegliere le parole più semplici per farlo, aiuta a comunicare nel modo più facile e inclusivo possibile. E la scelta di comprendere è uno dei fondamenti della democrazia.