Parolacce al femminile: quando l’offesa diventa questione di genere
Le parolacce al femminile sono diventate parte del linguaggio quotidiano, tanto da essere usate anche contro gli uomini. Segno della misoginia profonda radicata nella nostra cultura. In occasione dell'8 marzo le abbiamo ricordate.
La più antica parolaccia scritta in volgare si trova all’interno di una chiesa. «Fili de le pute, traite!», si legge in uno degli affreschi datati tra IX e XII secolo, nella basilica di San Clemente a Roma. L’insulto è chiaro, così la “filosofia” alla sua base. Per offendere alcuni uomini, precisamente due, vengono insultate le loro madri. Non una questione di opera o momento. Non solo almeno. La gran parte delle parolacce, infatti, è pensata al femminile. E spesso, anche quando è rivolta agli uomini, come nel caso dell’affresco. Le male parole rivolte alle donne o che alle donne fanno riferimento sono frequenti, nella storia, nella letteratura, nell’arte, e attraversano i secoli. Espressioni che danno anche la misura dell’animo della società, dei costumi del tempo, della morale di una comunità. A trasformare una parola in insulto, oltre all’intenzione, è la percezione di un tabù che, con il termine, viene spezzato. Termini che un tempo davano scandalo, oggi sono entrati nel linguaggio comune, proprio perché sono cambiati costumi e comportamenti. In occasione della Festa della donna, un breve viaggio negli insulti al femminile.

Parolacce al femminile, è il sesso il riferimento più forte nelle offese alle donne
Molte parolacce, in generale e, nello specifico, molte di quelle “al femminile” sono associate a tabù, appunto, legati alla sfera sessuale. Insomma, al “si fa”, forse, ma di certo, non si dice. Giuseppe Gioachino Belli, nel 1832, ne La madre de le Sante citava più di un modo per indicare i genitali femminili – scrive un testo gemello anche al maschile – e a colpire, oltre alla quantità di termini utilizzati, è l’uso spesso ambiguo che degli stessi termini viene fatto. La “parte” viene non di rado usata per riferirsi al tutto, ossia all’intera donna, facendone paradossalmente un complimento. Basta leggere la Treccani per rendersene conto. Il termine f*** viene usato anche per metonimia per indicare ragazza o donna giovane molto attraente: guarda che bella f…!”. E da quel termine ne discendono molti altri fino al comune “sfigato” che muta significato ma non riferimento. Il tema è ampio. Le offese numerose. Stando a una ricerca condotta da Vito Tartamella dell’Università Iulm di Milano, pubblicata su Antares: Letras e Humanidades, le parolacce che rimandano ad atti sessuali sono il 37 per cento del totale. I genitali maschili sono alla radice del 31 per cento degli insulti, quelli femminili “solo” del 24 per cento. A questi poi si aggiungono insulti, sempre a carattere sessuale, che possono valere per entrambi i generi. Apparentemente, quindi, le offese al maschile sono dominanti. A ben guardare, però, a pesare non è solo la quantità degli insulti, ma anche la loro qualità. O meglio, il “valore” dato alle parole. Numerose offese rivolte alle donne, infatti, si accompagnano a un giudizio morale o su di esso si basano.

Le parolacce contro le donne sono rivolte anche agli uomini
Le parole usate per dare della prostituta a una donna, quale che sia la sua reale condotta, sono numerose. La presunta facilità di costumi viene attribuita però, perfino – altro paradosso – a chi invece ostenta un atteggiamento contrario e non si concede. Come fosse una colpa per la donna il voler disporre liberamente del proprio corpo. E dall’insulto poi ne discendono molti altri e con più sfumature di significato. Figlio di... si dice di persona disonesta ma, con tono bonario, anche di un furbo, un tipo astuto. Il termine è tanto sdoganato da comparire anche in più canzoni. Una per tutte, Grande figlio di p... degli Stadio. Ancora, fare la p… significa cercare di allisciare la persona che si ha di fronte, compiacendola per mero interesse. Porca p… è imprecazione ampiamente usata in più contesti, di nuovo sia positivi sia negativi. Il termine p…. anata è usato per indicare una cosa o una situazione di nessun valore. Si svilisce l’oggetto del discorso, quale che sia, ma sempre passando prima dallo svilimento della figura femminile. Si mette una “s” davanti alla parola quando si rilevano le falsità di una persona. E, si badi, il termine viene usato anche per l’uomo che si vende. Il vocabolo conosce derivazioni anche la maschile, certo, il “p……iere” è l’uomo che va con tante donne. Già. Una questione di valore che stavolta, però, premia il donnaiolo. Anche “patacca” è parola che rimanda ai genitali femminili. E la si usa frequentemente per indicare qualcosa che vale poco. Ancora. Così la parolaccia supera secoli e distinzioni, appare nei testi sacri, impreziosisce l’antica oratoria, si fa letteratura, anche spettacolo. Antica pressoché quanto l’uomo, arriva laddove la parola si ferma e, figlia di tabù violati, prove di “forza”, umiliazioni e canoni sociali, confessa il proprio sguardo sull’Altro. Più ancora, forse, sull’Altra.
