Tutti sotto le stelle della Parigi-Roubaix. Ma non sono le solite stelle che indicano la rotta. Nient’affatto. Sono stelle che raccontano l’incubo che attende i ciclisti che la seconda domenica di aprile decidono di partire dalla Capitale della Francia per spaccarsi la schiena e appesantire le gambe con acido lattico lungo le stradine di quello che viene riconosciuto come l’Inferno del Nord, dove di tanto in tanto l’asfalto cede il posto alle pietre, al celeberrimo pavé. Non i sanpietrini dei centri storici, ma lastroni distanziati tra loro, su cui si traballa in sella a una bicicletta, e custoditi e curati da volontari. Pietre che sono l’oro puro, e duro, della grande classica che termina nel velodromo di Roubaix.
Trouée d’Arenberg, Mons-en-Pévèle, Carrefour de l’Arbre: gli incubi a 5 stelle
Ma il punto vero è che oltre alle pietre, l’altro simbolo della grande classica sono proprio le già citate stelle. Non solo quelle del ciclismo, i campioni più attesi. Le stelle segnalano anche i tratti in pavé più severi, quelli a cui gli atleti, i direttori sportivi e ancora di più gli spettatori gettano lo sguardo per capire quanto sia ‘gustoso’ un settore. Quando le stelle sono cinque il pavé non è, a differenza degli hotel, extralusso, ma l’esatto contrario: pietroni sconnessi che fanno sussultare i corridori a ogni centimetro. L’emblema è il rettilineo della Trouée d’Arenberg, la Foresta di Arenberg, 2.300 metri infiniti tra gli alberi, a meno di 100 km dall’arrivo. La Foresta emette la prima sentenza. A quel punto diventa chiaro chi può vincere la corsa, o chi deve prendere atto che dovrà ritentare all’edizione successiva. A poco meno di 50 km dall’arrivo c’è un altro tratto a 5 stelle che è il Mons-en-Pévèle, la bellezza di 3 mila metri di pietre con una cattiveria aggiuntiva: all’inizio il tratto sembra non così arcigno, ma andando avanti c’è un climax di crescente difficoltà. Fino all’apice degli ultimi metri. Il trittico dei 5 stelle è chiuso dal Carrefour de l’Arbre, 2.100 metri di pietre, che può essere decisivo per un motivo semplice: è il più vicino al velodromo dove si trova il traguardo, intorno ai -17 km. Giusto per capire il coefficiente di difficoltà, questo settore è caratterizzato da alcune curve nella parte iniziale. Se piove è un problema controllare la bici che scappa sotto, se è secco si solleva un mucchio di polvere. E in mezzo ci sono tanti altri maledetti tratti in pavé, che non hanno lo stesso coefficiente di fatica, ma che nelle gambe si sentono. Eccome.

Il fattore fortuna e i campioni dell’Inferno del Nord
È difficile sintetizzare in poche righe cosa abbiano significato le stelle e le pietre per l’Inferno del Nord. Di sicuro è una corsa difficile da vincere più volte, perché a differenza di altre richiede un boost di fortuna: la foratura è in agguato, la caduta è all’ordine del centimetro. Occorrono riflessi pronti e la mano della Dea Bendata. Doti e doni che hanno avuto dei giganti, come i belgi Roger De Vlaeminck e Tom Boonen che sono riusciti ad alzare la pietra (consegnata a ogni vincitore) al cielo per quattro volte: nel 1972, 1974, 1975 e 1977, nel caso di De Vlaeminck, e nel 2005, 2008, 2009, 2012, per Boonen. Un poker di due assi del ciclismo.
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Altri ancora hanno legato a doppio filo la carriera all’Inferno del Nord, come nel caso del nostro Francesco Moser (1978, 1979, 1980), vincitore di tre edizioni, al pari del solito Cannibale Eddy Merckx (1968, 1970, 1973), e tra gli altri, più di recente Johan Museeuw (1996, 2000, 2002) e Fabian Cancellara (2006, 2010, 2013), che hanno emulato altri miti come Rik Van Loy e ancora prima Gaston Rebry (negli Anni 30) e Octave Lapize (tra il 1909 e il 1911). Le stelle che ritornano, sotto forma di splendore del passato. La storia ha pure insegnato che la Parigi-Roubaix vede anche tante meteore: in pochi (per usare un eufemismo) avrebbero pronosticato la vittoria dell’australiano Mathew Hayman nel 2016, che negò il pokerissimo a Boonen, o del belga Johan Vansummeren, che nel 2011 portò a casa la più importante vittoria della sua storia personale, anticipando addirittura Cancellara. E che dire del francese Frédéric Guesdon che nel 1997 comparve dal nulla e da semisconosciuto conquistò la corsa, rimasta una pietra (mai definizione fu più azzeccata) miliare nella sua carriera. Più di recente al capitolo delle sorprese, si segnala l’epica vittoria di Sonny Colbrelli, che ha iscritto il suo nome nella leggenda del ciclismo. Non sarebbe stata una meteora, ne siamo sicuri, se il cuore non lo avesse fermato: tutti immaginavano un Mathieu Van der Poel capace di mettere in bacheca l’Inferno del Nord per la prima volta, in quell’edizione post Covid. Invece la spuntò Colbrelli ricoperto di fango.

In questa edizione gli occhi sono puntati sul belga Wout Van Aert
Così si arriva all’oggi, a chi punta a conquistare la vittoria nel 2023. E qui torna proprio Van der Poel, per gli appassionati Vdp, finora protagonista di un inizio di stagione da fenomeno qual è. Gli occhi saranno tutti puntati su di lui e sull’eterno rivale, il belga Wout Van Aert, segnalato un po’ acciaccato dopo la caduta di domenica scorsa al Giro delle Fiandre. Che sia tattica o realtà, lo diranno le pietre. Dietro la coppia d’assi ci sono tanti potenziali terzi incomodi, come il possente danese Mads Pedersen, che già a La Ronde ha dimostrato una condizione fisica strepitosa: il podio è una testimonianza certificata della sua forma fisica. Ma non è da meno lo svizzero Stefan Küng, sempre tra i migliori quando c’è da battagliare nelle gare più difficili. Chissà che non trovi quello spunto che finora è mancato. C’è poi la schiera delle seconde linee, si fa per dire, della Jumbo Visma, la squadra di Van Aert, che conta su Dylan Van Baarle, vincitore della scorsa edizione ma al rientro dopo un lungo infortunio, e sul francese Christophe Laporte, gregario di lusso e capitano all’occorrenza. Un altro danese, Kasper Asgreen, non va preso sottogamba; in bacheca ha già un giro delle Fiandre, il coraggio e la fantasia non gli fanno difetto e peraltro sarà affiancato dall’imprevedibile compagno di team, Yves Lampaert, che sulle pietre ci sa fare. Lo sloveno Matej Mohoric è un’incognita, a causa dei postumi di una caduta rimediata sette giorni fa, occhio poi a Florian Vermeersch e Ivan Garcia Cortina. Sotto la voce vecchie volpi ci sono il norvegese Alexander Kristoff, il belga Sep Vanmarcke e lo slovacco Peter Sagan. Sono rispettati in gruppo, ma godranno di maggiore libertà rispetto agli altri super favoriti. Mentre tra gli outsider, appaiono i nomi del tedesco Nils Pollitt, dell’azzurro Matteo Trentin e quello di Pippo Ganna che ha messo nel mirino una corsa che – per paradosso – dice sempre di odiare. Magari il sentimento può tramutarsi in amore al velodromo di Roubaix. Perché, tornando alle stelle, alla fine al traguardo ne brilla solo una.