All’inizio è venuto L’anno del secco. Era il 1981 e l’editore Savelli pubblicava il brillante debutto di un poeta di 33 anni, che credeva nel cosiddetto “impegno” ma allo stesso tempo si sentiva un po’ disorientato dall’incrocio fra le sue salde convinzioni politiche e ideologiche e il senso di scrivere versi, fra radici nel Veneto profondo e prospettive culturali allargate. Come Paolo Lanaro spiega oggi, «partecipare al “movimento” era un obbligo morale, ma nello stesso tempo significava mettere da parte quel tipo di scavo interiore che la poesia, bene o male, presuppone». Quarant’anni dopo, le convinzioni politiche non sono cambiate – almeno nella loro essenza – ma nemmeno lo “scavo interiore” si è mai arrestato. A quella prima raccolta poetica, Lanaro ne ha fatto seguire altre sette: Il lavoro della malinconia (La Locusta, Vicenza, 1989), Luce del pomeriggio e altre poesie (Scheiwiller, Milano, 1997), Giorni abitati (Ripostes, Salerno, 2001), Diario con la lampada accesa (Edizioni del Bradipo, Lugo, 2005), Poesie dalla scala C (Edizioni L’Obliquo, Brescia, 2011), Rubrica degli inverni (Marcos y Marcos, Milano, 2016), Le ore piccole (Il ponte del Sale, Rovigo, 2020). Come si può notare dalle date, le prime raccolte avevano una certa distanza l’una dall’altra, poi il ritmo si è fatto più rapido. Con questa cadenza, c’è da aspettarsi che nel giro di un paio di anni vedano la luce le poesie dell’era del “lockdown”, posto che sul tema già ci sono state prose acuminate e ironiche, consegnate prima al quotidiano on line Lettera43 e poi a un piccolo instant book intitolato Un virus non fa primavera, uscito per Cierre Edizioni nel mese di luglio del 2020.
La poesia è l’osservatorio più mediato ma anche il più profondo per cogliere il tumulto dei tempi
Intanto, però, Lanaro ha mandato nelle librerie una preziosa antologia, Un giorno dopo un altro – Poesie scelte 1981 – 2021 (Ronzani Editore, Vicenza, 2023; pagg. 190, euro 18,00). Preziosa perché il lettore interessato dalle ultime prove del poeta vicentino, ma in difficoltà nel trovare quelle più lontane nel tempo, si vede proposta in questo libro una raccolta esaustiva, che illumina l’ampiezza dei suoi percorsi e la complessità delle sue prospettive di stile e di contenuto, tenendo presente che gli ultimi 40 anni hanno visto cambiamenti radicali e continui come mai prima si erano verificati lungo i secoli. E che le poesie sono l’osservatorio più mediato ma anche più profondo per cogliere il tumulto dei tempi. Ma preziosa, anche, perché lo sguardo d’insieme rende evidente quanto nei versi di Lanaro, da quelli più antichi a quelli dell’altro giorno, domini la saldezza di uno sguardo colto eppure vicinissimo alle tradizioni popolari, sofisticato di allusioni filosofiche e sorridente di ricorsi alla saggezza popolare. Denso della consapevolezza che deriva da scelte letterarie di inoppugnabile chiarezza, eppure sempre nettamente personale.

Il racconto dell’evoluzione dell’opera poetica
L’evoluzione di quest’opera poetica di sicura rilevanza nel panorama italiano degli ultimi decenni è raccontata da Lanaro in una decina di pagine, una premessa “A chi legge” che è allo stesso tempo rapido sketch autobiografico, illustrazione di intenti, riflessione sulla natura della poesia e affermazione di principi creativi mai abbandonati. Una prefazione nel senso etimologico del termine, un discorso fatto prima per offrire al lettore gli strumenti adeguati a orientarsi in quel che troverà poi. La breve storia di una sintomatica educazione poetica che parte da Carducci, Pascoli e Manzoni (ma anche da Enrico Panzacchi, Ugo Betti e Angiolo Silvio Novaro) e conosce la prima rottura con Allen Ginsberg («Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia…»), relegando sullo sfondo gli ermetici ancorché da Nobel: «Ungaretti e Quasimodo», annota Lanaro, «nel giro di poco tempo diventarono pietanze un po’ rancide». Mentre studia filosofia all’università di Padova (e filosofia insegnerà per tutta la sua carriera nelle scuole superiori) il contatto con l’avanguardia letteraria italiana dei Balestrini e dei Sanguineti scompiglia ancora le carte; poi, i rapporti diretti con il concittadino Fernando Bandini e con Roberto Roversi, Vittorio Sereni, Giovanni Giudici e Paolo Volponi rimettono ordine nel tavolino su cui Paolo Lanaro si accinge ad apparecchiare la sua poesia. Libera da quel momento in poi di affermare rapporti letterari d’elezione, oltre che con gli autori citati, con Auden ed Enzensberger, con Larkin e Lowell, con Caproni e Montale.

Lasciato l’impegno ‘rivoluzionario’, i versi scorrono tra il polo della malinconia e quello della memoria
Istruito sulle “affinità letterarie” di Lanaro (e anche su rapporti culturali che tanto affini non sono, ma imprescindibili), grazie alla premessa il lettore può quindi inoltrarsi in questa antologia della sua opera poetica cogliendone l’evoluzione e le metamorfosi tematiche, la sostanziale omogeneità di stile dentro alle mutazioni del pensiero: lasciato alla giovinezza l’impegno “rivoluzionario”, i versi di questo autore scorrono fra il polo della malinconia e quello della memoria. E più passa il tempo, più la seconda appare sempre più chiaramente come una forma di speculazione filosofica allo stesso tempo piscologica e letteraria, capace di offrire panorami interiori di fascinosa complessità. Ma anche immagini poetiche di sorridente semplicità. E, sempre, un ironico distacco e una mai rinnegata sintonia con il mondo, incomprensibile e affascinante. Non per caso, l’affermazione di poetica più lucida, quella capace di indicare gli elementi comuni fra lo stare nella realtà e contemplarla, si trova in tre versi di Ciao, mamma, un estremo saluto di straordinaria intimità, pubblicato nel 2016 in Rubrica degli inverni:
Perché la poesia è un modo di vedere,
prima che di parlare. E basta molto poco
per riempire il silenzio fino all’orlo