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Scala, perché il concerto di Paolo Conte non è una profanazione

Ancora polemica sul concerto di Paolo Conte alla Scala. Una profanazione, secondo Maranghi. Lo vuole il pubblico, risponde Sgarbi dandogli del parruccone settecentesco. In realtà il Piermarini ha già ospitato Keith Jarrett e Milva. Magari con l’avvocato chansonnier la musica colta allargherà la sua platea, abbattendo i celesti recinti dei generi.

14 Febbraio 2023 18:01 Cesare Galla
Scala, perché il concerto di Paolo Conte non è una profanazione 5 1

Il censimento dei luoghi sacri in Italia ha urgente bisogno di un aggiornamento. Una lettera al quotidiano Il Foglio dell’imprenditore della musica Piero Maranghi (editore del canale tematico Sky Classica, piccole esperienze nella regia operistica) ha fatto emergere l’evidenza: i teatri sono templi, la programmazione non è soltanto una questione di scelte, giuste o sbagliate. Rischia di diventare una profanazione, come ha titolato Il Foglio. Se è così, il nuovo censimento dovrà tenere conto di centinaia di luoghi sacri finora non considerati tali, visto che il Belpaese, per nostra sempre più inconsapevole fortuna, è costellato di teatri, soprattutto vecchi. Molti sono del genere “all’antica italiana”, platea e file di palchi. Luoghi così poco sacri, fin dall’atto di nascita, che da qualche parte ci si facevano anche le feste di Carnevale, come la celebre “Cavalchina” della Fenice di Venezia. E vi prosperavano le bische. Peraltro, spesso gestite dagli stessi impresari che mettevano in scena i successi operistici del momento.

Scala, perché il concerto di Paolo Conte non è una profanazione 5
Piero Maranghi (da Instagram).

Il concerto di Paolo Conte alla Scala è una scelta insolita non certo una profanazione

Scherzi a parte, in realtà la schermaglia aperta da Maranghi (che è polemica su un altro piano, di cui si dirà fra poco) nasce vecchia fin dalla terminologia. E vedi caso il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, nella replica pubblicata sul Foglio il 14 febbraio, gli dà più o meno del parruccone settecentesco. Per fortuna, solo raramente si sente ancora parlare della Scala di Milano – di questo teatro parla la lettera – come di un “tempio della lirica”. E dunque, lasciando perdere il senso del sacro con annessi e connessi (fra i quali la ritualità sia dello spettacolo che dell’andare ad assistervi, eccetera eccetera) di una cosa ci sentiamo discretamente sicuri: il fatto che Paolo Conte e la sua folta band siano di scena al Piermarini il prossimo 19 febbraio, ultima domenica di Carnevale, non costituisce una profanazione, per mancanza dell’elemento oggettivo. È una scelta insolita, questo è innegabile. E poiché si tratta di una primizia assoluta, il gioco a rimpiattino sulle tribune social è subito diventato quello del “chi sì e chi no”. Con la fila degli esclusi di sicuro più lunga di quella degli “eletti”. In anni recenti o meno, le porte sono rimaste sbarrate per Adriano Celentano, per Bob Dylan, per Charles Aznavour, e si sono invece benignamente dischiuse per lasciare entrare Keith Jarrett e Milva. Non cadremo nella trappola delle distinzioni critiche. Ma certo colpisce che la discussione si alzi quando c’è di mezzo il cosiddetto avvocato-chansonnier, figura per lungo tempo appartata e sempre anomala che tuttavia può a buon diritto rivendicare, all’ormai veneranda età di 86 anni, un ruolo centrale e molto personale nella canzone d’autore di casa nostra, con la sua poesia sghemba e non di rado stralunata e con i suoi solidi riferimenti al jazz classico e allo swing. È inutile stare a strologare se queste caratteristiche rendano legittimo l’accesso di Conte alla Scala. E però non risulta che nella sua storia recente il teatro milanese sia stato accusato di “precedenti pericolosi” quando sono state compiute scelte artistiche nefaste – ed è accaduto – nel campo operistico o concertistico.

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Paolo Conte (Getty Images).

Il bersaglio polemico è il sovrintendente Dominique Meyer

La schermaglia, poi, appare speciosa nel momento in cui l’autore della lettera nega apoditticamente che un concerto di Paolo Conte alla Scala possa avere l’effetto di suscitare qualche curiosità per i generi caratteristici e abituali in quel teatro (opera, musica da camera e sinfonica, balletto) in un pubblico non avvezzo. Un effetto che invece è possibile e quanto meno auspicabile, sempre che sia vero che in quella sala si respirano una storia e una cultura di un certo tipo. Ma è chiaro che il bersaglio polemico della missiva è il sovrintendente Dominique Meyer, dichiarato «manifestamente sprovvisto di cultura scaligera». Paradossalmente, qualcuno potrebbe anche intendere l’espressione in senso positivo, a prescindere dal giudizio critico sul suo operato. Perché se la “cultura scaligera” è quella cosa che permette il perpetuarsi, ogni 7 dicembre, dell’inutile rito (appunto) celebrato in un tempio diventato terra di conquista dei mercanti, un’inaugurazione di stagione nella quale il teatro e la musica sono spogliati di ogni ruolo, allora ben venga chi ad essa è indifferente e riesce a farne a meno. Cosa che Meyer, per inciso, sembra lontano dall’avere realizzato.

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Dominique Meyer, sovrintendente della Scala (Fondazione Milano per la Scala).

La musica colta e “storica” vive solo se si riesce ad allargare la sua platea

Il fatto è che certe tradizioni, fondate sul vuoto di affermazioni che si autogiustificano, hanno sempre meno presa. Contano la musica, il teatro, la loro realizzazione, la capacità di far passare il loro significato, il desiderio di allargare gli orizzonti, di non sclerotizzarsi nelle suddivisioni di genere, di luogo, di palcoscenico. Contano sempre meno le ritualità, come quella dell’ascolto dei concerti. Resta ancora proibito (si fa per dire) applaudire fra un movimento e l’altro di una Sonata o di una Sinfonia, ma sempre più spesso le cronache raccontano che ciò avviene. Leggevamo di recente che al Barbican Centre di Londra il pubblico ha applaudito dopo ciascun movimento del Concerto per violino di Sibelius e della Sinfonia n. 6 di Prokof’ev, senza che nessuno battesse ciglio. Molto probabilmente quando alla Scala accadono cose del genere (è raro, molto raro) si alzano ancora imperiosi e irosi zittii. Ma se qualcuno dei fortunati in grado di comperare un biglietto per il concerto di Conte si farà venire la curiosità di tornare alla Scala per qualcosa di diverso, e ascoltando applaudirà fra un movimento e l’altro, ci sarà solo da rallegrarsene. La musica colta e “storica” vive solo se si riesce ad allargare la sua platea. E non è detto che questo miracolo non possa avvenire anche aprendo i celesti recinti dei generi. Perché, come diceva già nel 1964 il cantautore che avrebbe vinto il Nobel Letteratura, e per il quale in tempi recenti le sacre porte del Piermarini sono rimaste chiuse, The times they are a-changin’.

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