Secondo Alessandro Barbero, dopo la peste del 1348 l’Europa si ritrovò più giovane, sana e intraprendente. La morìa aveva riempito cimiteri e fosse comuni, ma aveva lasciato migliaia e migliaia di case libere, risolvendo la crisi degli alloggi. Chi era sopravvissuto aveva spesso ereditato, scavalcando nella linea di successione altri consanguinei meglio piazzati, ma rimasti vittime del bubbone, e non vedeva l’ora di ricominciare a spendere. La disoccupazione era sparita, i salari cresciuti, l’accesso alle professioni più facile. In un’Italia spopolata ma come fertilizzata dai milioni di corpi sepolti nella terra, germogliavano ovunque nuova ricchezza, nuovo ottimismo, nuove idee, che avrebbero portato in capo a qualche decennio (e a parecchie altre mini-pestilenze: secondo gli storici, una ogni sei-12 anni fino alla fine del Quattrocento, quando l’intervallo si attestò sui 15-20 anni) alla gloria del Rinascimento. Non fu così al di là delle Alpi. La Guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra era iniziata solo da un decennio e sarebbe continuata per un altro secolo, facendo meno morti della peste ma terremotando l’economia e la finanza dell’Europa continentale, con conseguenze catastrofiche sulle banche fiorentine, padrone del credito internazionale.

Quando si pensava che ne saremmo usciti tutti migliori
Quando, esattamente tre anni fa, è scoppiata la pandemia di coronavirus, la Peste nera è stata un riferimento inevitabile, e i podcast di Barbero sull’argomento andavano alla grande: molti li hanno scoperti durante il lockdown, molti li riascoltavano per rincuorarsi, pensando che, oggi come nel Medioevo ne saremmo usciti non solo migliori, ma forse anche più ricchi. Magari ci saremmo anche ritrovati in libreria qualche capolavoro elaborato durante la quarantena, come il Decamerone. Senza pensare che se anche i 10 giovani della raccolta boccaccesca nella loro clausura avessero avuto a disposizione Netflix, le novelle non avrebbero avuto bisogno di raccontarsele a voce, ma si sarebbero limitati a guardarle in tivù, esattamente come abbiamo fatto noi. Una serie, due, tre al giorno, un binge-watching interrotto solo dal quotidiano bollettino dei caduti alle 18.

Le fiction e il doomscrolling erano cibo per una memoria che non aveva altro da immagazzinare
Nelle emozioni posticce delle fiction, in quelle più reali provocate dalle notizie e dalle immagini dei telegiornali, in quelle retrospettive rievocate dai podcast storici di Barbero, cercavamo e trovavamo punti di riferimento cui appendere le nostre giornate improvvisamente scardinate dalla solita routine. Informarci sulle disgrazie altrui o su quelle che incombevano su di noi non era morboso voyeurismo indotto dall’ozio forzato. Oggi la scienza ci assolve: secondo la neurologa canadese Morgan Barense, il doomscrolling, lo scorrere affannoso di notizie drammatiche sullo smartphone o sul pc in cui si indulgeva nei mesi del lockdown (e non solo) era una strategia per cibare di eventi significativi una memoria che in quei giorni non aveva nulla di memorabile da immagazzinare. Una vita monotona è per il cervello quello che l’aria viziata e povera di ossigeno è per i polmoni. Abbiamo bisogno di cose da ricordare, piccole e grandi, semplicemente per tenere in esercizio la memoria, che va tenuta in esercizio ogni giorno, come un muscolo. Ed esercizio non significa solo trattenere i ricordi, ma anche disfarsene quando sono diventati inutili o dannosi. Se una quarantena ci priva di esperienze dirette – nuovi incontri, viaggi, litigi con i colleghi, successi o fallimenti sul lavoro – vanno bene anche i bollettini Covid. Piuttosto che niente meglio piuttosto, ragionava il nostro cervello, obbligandoci a incollare gli occhi sull’ennesima conta di morti.
Passata la pandemia nella mente è rimasta solo una nebbiolina sfocata
Le osservazioni della dottoressa Barense rientrano in uno studio canadese sulle conseguenze della pandemia sulla memoria, in particolare la difficoltà di molte persone quando si tratta di rievocare la propria vita nei giorni dell’isolamento. Sfumati i ricordi a breve termine di tragici bilanci e percentuali di vaccinati lette sugli schermi, nella mente è rimasta solo una nebbiolina sfocata, grigiastra come la tuta che indossavamo h24. La memoria si è sbarazzata in fretta di quei dati incamerati unicamente per tenersi in forma, e ha fatto spazio alle nuove impressioni, belle o brutte ma fresche e vere, provocate dal ritorno alla vita e alla socialità.

Rompere la routine non è un capriccio ma istinto di conservazione
Sarebbe però utile trattenere in qualche neurone l’insegnamento ricavato dalla quarantena pandemica: il cervello umano odia la noia e la ripetitività, cercare di spezzarle non è capriccio, ma puro istinto di conservazione. Forse quando invecchiamo la memoria perde colpi solo perché con il passare degli anni lasciamo che diminuiscano la quantità, la varietà e l’intensità delle nostre esperienze e ci auto-infliggiamo una specie di confinamento nel già visto e nel già fatto. Se il ricordo di quel che è successo al nostro cervello durante i mesi di lockdown ci convincerà a organizzarci una terza età attiva ed emozionante, saremo più protetti contro il rimbambimento senile. Ma speriamo che a immunizzarci basti una sola dose.