Il destino del Pakistan è sempre più nelle mani del Fondo Monetario Internazionale. Il piano di aiuti al Paese, del valore di circa 6 miliardi di dollari, rappresenta oggi l’unica strada percorribile per evitare un default annunciato. La Repubblica Islamica presenta, infatti, un quadro economico simile a quello dello Sri Lanka recentemente finito in bancarotta. Al pari dell’isola, anche il Pakistan dipende ampiamente dalle importazioni soprattutto per le materie prime energetiche. Per questa ragione, l’impennata dei prezzi di gas e petrolio sta pesando sulle casse di Islamabad il cui deficit commerciale è aumentato del 70 per cento nei primi 10 mesi dell’anno fiscale 2021-2022, attestandosi intorno ai 40 miliardi di dollari. Crollate del 50 per cento in pochi mesi, le riserve valutarie detenute dalla Banca Centrale pakistana ammontano a 9,7 miliardi di dollari appena sufficienti a coprire le importazioni per le prossime 6-8 settimane. Ad aggravare la situazione, concorrono il deprezzamento della rupia, ai minimi storici sopra quota 200 per dollaro, e l’inflazione cresciuta del 13,8 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. In questo contesto, la modifica dell’outlook del Pakistan da stabile a negativo decisa da Moody’s rappresenta un ulteriore colpo per il Paese che, senza un accordo con il Fondo, non potrà beneficiare di alcun aiuto estero.

Il taglio ai sussidi per convincere il FMI
Il Pakistan ha una lunga e travagliata relazione con il Fondo Monetario. Nonostante la reticenza mostrata dai leader pakistani nel ricorrere agli aiuti internazionali, dal 1958 a oggi si contano oltre 20 interventi dell’organizzazione a sostegno del Paese. L’ultimo accordo, che risale al 2019, ha portato nelle casse di Islamabad circa 3 miliardi di dollari prima di essere sospeso a causa del mancato rispetto delle condizionalità imposte dal Fondo. Al centro della contesa, i sussidi al settore energetico che pesano sulle casse dello Stato. Negli anni, i governi pakistani consapevoli del prezzo politico e sociale che la decisione di bloccare i sussidi avrebbe comportato, si sono sempre opposti alle richieste del Fondo di sospenderli. Di conseguenza, il Fondo ha bloccato l’ultima tranche di 900 milioni di dollari del prestito. Tuttavia, qualcosa sembra essere cambiato. Dopo che la questione sussidi ha impantanato anche l’ultimo round di colloqui svoltosi a Doha, il governo guidato da Shehbaz Sharif ha deciso il 27 maggio di aumentare i prezzi di benzina e diesel del 20 per cento. Un secondo aumento del 17 per cento del prezzo del carburante è stato annunciato il 3 giugno. Le due misure rappresentano un chiaro messaggio di apertura nei confronti delle richieste del Fondo. Tuttavia, il governo rischia ora di essere sommerso da un’ondata di dissenso popolare che potrebbe avvantaggiare l’ex primo ministro Imran Khan.
La crisi economica diventa politica
Da settimane Khan organizza comizi in tutto il Paese contro il governo Sharif che considera illegittimo. Obiettivo dell’ex premier, sfiduciato dal Parlamento lo scorso aprile, è quello di preparare il campo per le prossime elezioni previste (salvo sorprese) per il 2023. Khan, già capitano della squadra di cricket pakistana che vinse la coppa del mondo nel ‘92, non ha mai accettato l’esito della crisi politica che ha segnato la sua uscita di scena. Dopo la sfiducia l’ex premier ha addirittura agitato lo spettro della cospirazione statunitense. D’altronde, Khan ha fatto ben poco negli anni per assicurarsi le simpatie di Washington. Oltre ad aver rafforzato i tradizionali rapporti del Paese con Pechino, l’ex premier si è fatto anche notare per la sua presenza a Mosca nelle ore in cui iniziava l’invasione russa dell’Ucraina lo scorso 24 febbraio.

Cresce la tensione nel Paese tra arresti e minaccia terroristica
L’intreccio tra crisi economica e istituzionale sta creando un clima esplosivo in Pakistan. Chiamati a raccolta i suoi supporter, lo scorso 25 maggio Khan ha inscenato una marcia sulla Capitale per chiedere le dimissioni del governo. Giunta davanti al Parlamento la manifestazione è sfociata in scontri tra attivisti e forze dell’ordine che hanno fatto ampio uso di lacrimogeni per disperdere la folla. Nei giorni precedenti alla marcia di Islamabad, il governo Sharif aveva ordinato una serie di operazioni volte, secondo la versione ufficiale, a scongiurare la presenza di attivisti armati. Teatro dell’azione repressiva è stata la città di Rawalpindi, nel Punjab. Qui, le forze di sicurezza pakistane hanno condotto oltre 4 mila raid nelle abitazioni dei militanti del Movimento per la Giustizia del Pakistan guidato da Khan arrestando 1.700 persone. A contribuire all’instabilità del Paese c’è anche la rinnovata minaccia terroristica posta dai talebani pakistani, autori di oltre 45 attacchi dall’inizio dell’anno che hanno provocato almeno 80 morti. Segnali di un clima incandescente nel Paese che il Fondo Monetario non può non tenere in considerazione.