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Non tirate sul regista

Lo spirito del loggionismo ha trovato nuovi bersagli: alle stecche dei cantanti si aggiungono le messinscena innovative e attualizzate. E i paladini del libretto arrivano a chiedere leggi ad hoc.

11 Luglio 2021 15:52 Cesare Galla
la guerra tra i paladini del libretto e i regiosti innovatori

S’intitola Against Modern Opera Productions, contro gli allestimenti operistici moderni. È una pagina Facebook attiva già da un decennio e raccoglie una “comunità di amanti dell’opera infastiditi dal teatro di regia” di circa 60 mila persone. È internazionale, ma in Italia i gruppi o le pagine dedicate alla lirica sono decine, alcuni corposi quanto a partecipanti, altri piccoli o piccolissimi. Nessuno dichiara la propria ideologia fin dal titolo in questo modo, tutti in varia misura rispecchiano l’insofferenza nei confronti delle “prevaricazioni”, vere o molto più spesso presunte, compiute dai registi.

Su Amop l’aggiornamento dei post è piuttosto frequente e il taglio della discussione è forse meno aspro che altrove. Un giochino ricorrente è quello di postare l’immagine di un allestimento attualizzato e/o provocatorio e poi sfidare i frequentatori del sito a indovinare di che opera si tratti. Non mancano le notazioni in positivo, sia per gli spettacoli – a titolo di cronaca, segnaliamo grandi elogi per l’Aida in scena in queste settimane all’Arena di Verona (si vede che i simil cartoon sul grande led wall in anfiteatro sono piaciuti) – sia soprattutto per i cantanti e per i registi “buoni”. Quasi inutile specificare che c’è grande devozione per Franco Zeffirelli buonanima. E che il recente ritorno alla Scala delle Nozze di Figaro con la regia di Giorgio Strehler, spettacolo che ha una quarantina di anni, è occasione di una commossa citazione.

 

La resistenza al teatro di regia nell’opera

La pagina, almeno all’apparenza, è fra le versioni più presentabili della “resistenza” al cosiddetto teatro di regia nell’opera: un singolare universo conservatore e monodirezionale (come se l’opera fosse solo canto e null’altro) che è nato insieme alle nuove tendenze nella messinscena del melodramma, ma che con lo sviluppo dei social network si è sviluppato e propagato esponenzialmente, con accenti spesso irosi, talvolta ingiuriosi, sempre accalorati e apodittici. Per convenzione (ma gli storici hanno individuato vari e significativi precedenti), la nascita del Regietheater (non per caso il termine è tedesco) si fa coincidere con l’edizione del centenario del Ring di Richard Wagner, affidata a Bayreuth nel 1976 al regista Patrice Chéreau. Il Prologo e le tre Giornate del ciclo dei Nibelunghi furono rappresentate secondo una visione ispirata alle tesi politiche contenute nel Wagneriano perfetto di G.B. Shaw (1898): gli antichi miti germanici utilizzati da Wagner come metafora dell’aspro confronto-scontro delle classi sociali dentro al sistema capitalistico tardo ottocentesco. Al debutto, le contestazioni al Festspielhaus, lo storico tempio wagneriano, furono clamorose e senza precedenti: la scelta d’epoca (tardo Ottocento) e la contestualizzazione politica sconcertarono il pubblico più tradizionalista ma anche una buona parte della critica. Ripercorrendo quelle vicende, però, si tende spesso a omettere quello che accadde negli anni seguenti. Nel 1980, la conclusione del ciclo di rappresentazioni dell’allestimento di Chéreau fu salutata da un trionfo clamoroso, con ovazioni interminabili. Un successo proseguito in televisione e con la pubblicazione di Dvd che restano in commercio ancora oggi.

La guerra civile tra paladini della sacralità del libretto e innovatori

Il fatto che la Germania sia stata in certo modo la culla del teatro di regia nell’opera può spiegare il fatto che le scene tedesche siano quelle che negli ultimi decenni hanno visto probabilmente il maggior numero di spettacoli “provocatori” e radicali, non sempre in realtà di un livello qualitativo significativo o almeno accettabile. Certo è che la tendenza si è comunque diffusa a livello globale, in Europa e negli Stati Uniti e ha finito per causare una sorta di guerra civile dell’opera: nostalgici della tradizione contro innovatori, paladini della sacralità del libretto e della sua collocazione nel tempo e nello spazio contro sostenitori della necessità di attualizzare o comunque di chiarire le trame per portare le polverose storie della maggior parte dei melodrammi in una zona comprensibile non solo ai fanatici degli exploit belcantistici. Rivelando la narrazione drammaturgica nella musica, oltre gli acuti delle star del belcanto. Da questo punto di vista, i registi coraggiosamente creativi, lungi dall’essere nemici dell’opera – come sostengono i loro contestatori – ne sono in realtà grandi sostenitori, che si sforzano di portarla a un pubblico il più ampio possibile. Così afferma ad esempio di voler fare Damiano Michieletto, ormai stella internazionale del teatro di regia, del quale non si conoscono allestimenti che non siano di fatto ambientati nel tempo presente (o dintorni) a prescindere dall’epoca in cui si svolge l’opera di cui si occupa. E non a caso, è forse il regista più avversato dai melomani tradizionalisti.

Registi vil razza dannata

Poi, questi tentativi possono essere più o meno riusciti. Talvolta non lo sono affatto, ed è oggettivamente difficile trovare una logica in certe scelte. Nei casi più eclatanti appare evidente quanto il meccanismo dominante sia quello mediatico, ingigantito dai social, degli “scandali artistici”. Per esempio, si annuncia che andrà in scena una Carmen nella quale alla fine è la sigaraia a uccidere Don Josè e non viceversa (è accaduto a Firenze all’inizio del 2018) e si scatena una bagarre nella quale l’unica cosa certa è che discorsi complessivi ben approfonditi sull’autore, sull’opera e sulla lettura del regista (che era Leo Muscato) non se ne sono sentiti. E viene il sospetto che il clamore sia servito soprattutto a chi quello spettacolo ha commissionato. Ma questi casi restano eccezioni. In generale, esiste una minoritaria ma chiassosa parte di pubblico che considera i registi “vil razza dannata” a prescindere e non esita a sparare a zero (sui social ma anche con vivaci contestazioni in teatro) non solo per scelte visive e teatrali colpevoli di non aderire alla tradizione, ma anche per presunte violazioni degli intoccabili elementi drammaturgici d’epoca, per ambientazioni non conformi ai libretti e via discorrendo. Così, lo spirito del loggionismo più deteriore ha trovato nuovi bersagli: nel mirino resteranno forse ancora le stecche dei cantanti, ma oggi ci sono soprattutto le scelte dei registi.

Il paradosso di far diventare legge il divieto di attualizzazione

Pochi giorni fa, un’opera di Vivaldi, Farnace, è stata proposta al teatro Malibran di Venezia secondo una regia che spostava la vicenda dall’antichità romana al Medioriente insanguinato dal terrorismo di oggi, e rovesciava il lieto fine dell’originale mettendo in scena una strage di tutti i nemici del protagonista in titolo. Sui social si sono viste reprimende scontate e tutto sommato blande, ma qualcuno ha colto l’occasione per pubblicizzare una petizione lanciata tre settimane fa sul noto sito Change.org, indirizzata ai presidenti di Camera e Senato e ai presidenti delle relative commissioni Cultura, intitolata “Tuteliamo l’opera lirica quale espressione artistica intangibile di interesse nazionale”. Chi la propone usa lo pseudonimo Felice Romani, ovvero uno dei più importanti librettisti del primo Ottocento. La petizione fa riferimento a un disegno di legge per la valorizzazione del melodramma presentato alla Camera il 3 giugno scorso, ma aggiunge qualcosa che nel Ddl non esiste affatto: l’esortazione ai legislatori perché “promulghino opportune leggi e/o normative atte a regolamentare la produzione delle opere liriche affinché la loro struttura filologica e drammaturgica non venga alterata rispetto alle originali intenzioni degli autori”. Il rispetto dei libretti e il divieto di attualizzazione da parte dei registi resi obbligatori per legge? Noi stiamo con Lorenzo Da Ponte, illustre predecessore di Felice Romani, e con quello che fa dire a Don Giovanni (Finale atto I): «È aperto a tutti quanti: viva la libertà!». Anche nella regia dell’opera.

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