Onuanisti

Nicolò Delvecchio
20/08/2021

L'Afghanistan è solo l'ultimo esempio dell'autoreferenzialità delle Nazioni Unite. E della loro sostanziale incapacità di intervenire nelle situazioni più gravi. Dal Ruanda alla Libia fino alla Bosnia.

Onuanisti

Per primo ha parlato il Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, che da Bruxelles ha definito quello dell’Afghanistan «un collasso militare e politico non prevedibile», pur sottolineando che non era intenzione dell’Alleanza atlantica rimanere nel Paese per sempre. Stoltenberg ha poi puntato il dito contro le autorità politiche e militari afghane, incapaci di difendere il proprio territorio, pur ammettendo che da questo fallimento clamoroso ci sarà da imparare. Poi è intervenuto il Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres che ha lanciato alla comunità internazionale – lui, che ne è letteralmente il leader – appelli vaghi alla necessità di accogliere i rifugiati e di non permettere la violazione dei diritti umani in Afghanistan.

Nelle ore in cui l’Afghanistan è tornato indietro in un solo colpo di 20 anni, in molti si sono chiesti perché le principali organizzazioni internazionali non intervenissero a sostegno del governo e del popolo afghano. Quanto alla Nato, la questione è risolvibile facilmente: perché se ne stavano andando. È stata la Nato, su mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, a guidare le missioni militari in Afghanistan negli ultimi 20 anni. Operazioni iniziate nel 2001, con la missione Forza internazionale di assistenza per la sicurezza, e terminata il 15 agosto 2021 con Sostegno risoluto. E le Nazioni Unite? Semplicemente, a meno di una decisione unanime di cinque Paesi quasi sempre in contrasto tra loro, non può autorizzare alcun tipo di operazione militare o di peacekeeping  con i caschi blu.

Le critiche sull’utilità dell’Onu

La circostanza, insieme a tante altre in cui l’invio di truppe avrebbe potuto aiutare la risoluzione di conflitti o di situazioni comunque drammatiche, fa sorgere una domanda spontanea: ma se le Nazioni Unite non intervengono in casi così, quando dovrebbero? E se non possono, a che servono? La storia dell’Onu, purtroppo, è costellata di fallimenti militari concretizzatisi nell’ignorare, o peggio aggravare, situazioni di guerra che hanno prodotto genocidi, crimini contro l’umanità e milioni di profughi. E non solo, perché se è vero – come ha notato Il Foglio in un articolo del 2015, scritto per i 70 anni dell’Organizzazione – che le Nazioni Unite, soprattutto grazie all’Unicef, hanno aiutato milioni di bambini in situazioni di difficoltà, in troppi altri casi non non sono riuscite a risolvere nulla, limitandosi a vuoti appelli, o risoluzioni, rimasti lettera morta. Nel pezzo, molto critico, sono anche riportati gli enormi sprechi economici di un carrozzone sempre più grande, vetusto e immobile.

Come funziona il Consiglio di Sicurezza dell’Onu

Il problema non è di intenzioni, perché a parole l’Onu è intervenuto in tutte le situazioni più critiche. Me è nella struttura stessa dell’Organizzazione, che non permette l’intervento militare a meno di uno strano allineamento di pianeti, sempre più raro. In base all’articolo 42 della Carta delle Nazioni Unite, infatti, l’intervento armato della coalizione internazionale può avvenire solamente in caso di votazione favorevole di nove dei quindici membri che compongono il Consiglio di Sicurezza. C’è un però: deve esserci l’unanimità dei cinque membri permanenti (gli altri dieci cambiano ogni due anni), e in caso di veto anche solo di uno di questi, la mozione non può essere approvata. Gli Stati in questione sono i vincitori della Seconda guerra mondiale, cioè Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Russia e Cina. Ecco perché abbiamo scritto “allineamento di pianeti”: per far sì che l’intervento venga approvato, bisogna mettere d’accordo soprattutto Washington, Mosca e Pechino. È successo con la Libia nel 2011 e si è concluso in un fallimento totale, non è successo con la Siria dove Putin aveva grossi interessi nel sostenere il regime di Assad, né ovviamente si è potuto fare nulla in Ucraina nel 2014 (con l’annessione della Crimea e la guerra nel Donbass), visto che la Russia era potenza occupante. Rimangono le sanzioni, certo, ma non sono sufficienti a risolvere nulla in situazioni di emergenza. In Afghanistan, posto che l’Occidente si è ritirato in fretta e furia e difficilmente ci tornerà, dovrebbero dire di sì a un intervento contro i talebani ancora Russia e Cina, proprio le due principali potenze che si sono dette pronte a un dialogo con l’Emirato e che non hanno chiuso le ambasciate di Kabul. Vedere l’Onu nel Paese, nel breve, è semplicemente impossibile.

Gli interventi fallimentari dell’Onu nel mondo 

L’ultimo grande fallimento dell’Onu risale all’intervento in Libia del marzo 2011, sponsorizzato soprattutto dalla Francia del Presidente Nicolas Sarkozy. Era il periodo delle Primavere arabe, e il mondo decise di schierarsi contro Muammar Gheddafi e in favore dei ribelli, sui quali si era abbattuta la sanguinosa repressione del Raìs e delle sue forze armate. Con la risoluzione 173, il Consiglio di Sicurezza approvò l’utilizzo «di ogni mezzo necessario» per proteggere la popolazione dalla violenza del governo libico, una formula adottata ogni volta in cui l’Onu opta per l’intervento militare senza citarlo esplicitamente. Ai bombardamenti parteciparono in totale 18 Paesi, tra cui 14 della Nato, e le operazioni portarono sì alla deposizione del Colonnello, ma anche al dissolvimento della Libia, ancora in cerca di stabilità. Non è un caso che molti libici siano favorevoli al ritorno di un Gheddafi sulla scena politica a 10 anni da quegli eventi.

Un po’ per il disastro di quell’esperienza, un po’ per gli interessi di Mosca nell’area, l’Onu non riuscì ad intervenire in Siria, né al fianco dei ribelli al regime di Assad (come abbiamo accennato, alleato importante di Putin) né contro l’Isis, che nel Paese e in Iraq stabilì le sue roccaforti togliendole, con la violenza, ai governi di Damasco e Baghdad. Le operazioni guidate dagli Stati Uniti contro i terroristi, infatti, non furono approvate dall’Onu, ma giustificate dalla richiesta di aiuto del governo iracheno a Washington. La vittoria militare contro lo Stato islamico, quindi, non ha nulla a che fare con le Nazioni Unite.

E forse è un bene, perché altri interventi approvati dal Consiglio di Sicurezza finirono in un bagno di sangue. Nel corso della guerra in Bosnia (1992-95), l’Onu intervenne con le proprie forze di protezione (un corpo armato che non esiste più) creando alcune zone protette in alcune città bosniache, tra cui Sarajevo e Srebrenica. A difesa di quest’ultima c’era un piccolo contingente di 600 caschi blu olandesi, i militari con funzione di peacekeeping, che non intervennero quando, l’11 luglio 1995, i militari serbo-bosniaci entrarono nella città e compirono il primo genocidio in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Le responsabilità delle Nazioni Unite, non intervenute nemmeno con gli altri contingenti presenti in Bosnia nonostante le richieste dei caschi blu, non sono mai state accertate. A Srebrenica furono trucidate ottomila persone, sotto lo sguardo impotente della più grande organizzazione internazionale.

Discorso simile a quanto successo in Ruanda l’anno prima, nel 1994, con l’Operation Turquoise. Nel Paese africano era da tempo in corso una violentissima guerra civile nella quale la Francia, non supportata da alcun alleato, decise di intervenire per provare a fermare i massacri in corso. L’operazione approvata dall’Onu durò appena due mesi, dal 22 giugno al 21 agosto, ed è considerata un fallimento perché non riuscì minimamente nel suo intento: si stima che il genocidio del Ruanda, uno dei peggiori nella storia dell’umanità, abbia causato oltre un milione di vittime.

Amnesty International condanna il fallimento delle Convenzione di Ginevra

Nel 2019, a 70 anni dall’approvazione delle Convenzioni di Ginevra che misero nero su bianco le norme sul diritto delle vittime di guerra e sul diritto internazionale umanitario, Amnesty International rilasciò un comunicato molto duro: «Vent’anni dopo l’impegno del Consiglio di sicurezza a fare il massimo per proteggere i civili nei conflitti armati e 70 anni dopo che le Convenzioni di Ginevra cercarono di tutelare le popolazioni civili dalle atrocità della Seconda guerra mondiale, il quadro complessivo è incredibilmente tetro». «Russia, Cina e Usa», si legge ancora «continuano ad abusare del loro potere di veto per bloccare proposte di risoluzione che cercano di prevenire o fermare le atrocità».

Nel testo vengono anche sottolineate le mancate azioni in zone di guerra come Yemen, Somalia, Gaza, Sud Sudan. «Nel 2018 l’Agenzia Onu per i rifugiati ha denunciato la cifra-record di 68,5 milioni di persone costrette a vivere fuori dalle loro terre a causa dei conflitti armati e di altre forme di violenza», conclude il comunicato. «Settant’anni dopo le Convenzioni di Ginevra, quel numero di quasi 70 milioni di sfollati riflette il catastrofico fallimento dei leader mondiali rispetto alla protezione dei civili».