Gli abissi: un universo da scoprire. E, per alcuni, da trivellare. Come riporta il Guardian, negli ultimi 40 anni sono in aumento le compagnie interessate a intraprendere una simile attività. Secondo queste sarebbe un modo per incentivare l’economia green e ridurre l’inquinamento, ma l’azione rischia di risultare dannosa per un ecosistema per molti aspetti ancora sconosciuto.
Il 90 per cento dell’oceano è mare profondo
Il 90 per cento dell’oceano – e dunque il 50 per cento della superficie terrestre – è considerato dagli esperti mare profondo, ossia con una profondità oltre i 200 metri. Ad oggi però ne è stato studiato solo lo 0,0001 per cento. «Ogni volta che ti immergi, vedi qualcosa di incredibile e nuovo», afferma Diva Amon, biologa al Museo di storia naturale di Londra. «Ci si può imbattere nel verme mangiatore di ossa chiamato Osedax, che vive sulle carcasse delle balene morte nelle profondità, oppure in anemoni dai tentacoli lunghi oltre 2 metri». Fra le scoperte recenti c’è anche il cosiddetto granchio yeti, crostaceo di colore bianco spettrale con setole sugli artigli che rimandano vagamente all’uomo delle nevi.
Non solo la fauna, ma anche il paesaggio e le correnti sono in parte ignote. Continuamente gli scienziati si confrontano con nuove bocche idrotermali, lunghe piane simili ai deserti della superficie o gigantesche voragini. In un contesto simile, resta da capire la reazione dell’ambiente a un intervento invasivo dell’uomo.
Perché le aziende trivellano gli oceani?
Dal 1982, l’International Seabed Authority (Isa), che ha il compito di regolamentare le attività umane sui fondali marini, ha emesso 30 contratti per l’esplorazione mineraria, la maggior parte dei quali nel Pacifico lungo la zona di frattura Clarion-Clipperton (Ccz). Ad attrarre le aziende sono i noduli polimetallici, blocchi minerari che assomigliano alle patate, ricchi di manganese, nichel e cobalto. «Sono come batterie», affermano gli esponenti di DeepGreen, società leader nel settore. «Abbiamo un bisogno urgente di metalli per creare batterie, in modo da consentire una transizione completa verso l’energia pulita e i veicoli elettrici», si legge sul sito ufficiale dell’azienda. «Riteniamo che i noduli polimetallici ne siano la fonte più pulita».
Excellent story from @MsKateLyons. Explains how mining companies are leveraging relations with some Pacific island governments to press the International Seabed Authority to open the high seas to deep sea mining. #BluePacific https://t.co/1aum9zQiVt
— Dr Wesley Morgan (@wtmpacific) June 24, 2021
Finora, nelle acque internazionali sono state rilasciate solo licenze per l’esplorazione, ma l’Isa sta lavorando a un quadro normativo anche per l’estrazione, con DeepGreen che afferma di poter iniziare i lavori già entro il 2024.
L’estrazione «un danno irreversibile per l’ecosistema»
Se qualcuno non vede l’ora di iniziare, d’altro canto c’è chi teme danni irreversibili per l’ecosistema. «Si parla della distruzione di un intero habitat marino», afferma Duncan Currie, un avvocato internazionale della Deep Sea Conservation Coalition. «Qualsiasi area in cui si estrae verrà distrutta».
«Abbiamo scoperto una megafauna (animali di grandi dimensioni, ndr.) completamente nuova per la scienza e più della metà di essa si affida ai noduli come superficie cui attaccarsi», continua la dottoressa Amon, che ha effettuato alcuni sondaggi nella Ccz per il Regno Unito. «Coralli, spugne e anemoni ne hanno un notevole bisogno, estrarli potrebbe generare una catastrofe». Altre preoccupazioni riguardano l’aumento della temperatura, l’accumulo di materiali di scarto e l’inquinamento acustico prodotto dai mezzi di estrazione. Il rumore potrebbe infatti interferire con le comunicazioni tra le specie animali che abitano i fondali, pregiudicandone l’attività di ricerca del cibo.
Immediata la risposta di DeepGreen. «La comunità anti-Dsm (“deep-sea mining”, estrazione nel mare profondo, ndr.) catastrofizza e travisa le valutazioni d’impatto che non supportano la loro linea», ha detto un portavoce dell’azienda. «Il nostro obiettivo è assicurarci che l’attività non causi danni su larga scala agli ecosistemi e riduca al minimo il rischio per la biodiversità».
Estrazione, i dubbi di Ue e isole del Pacifico
Prima che l’estrazione possa iniziare, l’Isa deve rilasciare un codice per lo sfruttamento delle profondità marine. Inizialmente si era parlato di luglio 2020, ma la pandemia da Covid-19 ha ritardato le operazioni. Gli incontri dovrebbero riprendere in settimana, anche se il parlamento dell’Ue ha chiesto cautela fin quando gli impatti ambientali non saranno meglio compresi e gestiti. Dello stesso avviso anche le piccole isole del Pacifico. «Siamo interessati a conoscere le misure che stanno adottando e le garanzie», afferma Ralph Regenvanu, leader dell’opposizione di Vanuatu, che assieme ai colleghi delle Fiji e della Papua Nuova Guinea ha chiesto una moratoria regionale per apprendere di più sui potenziali danni ambientali.