Una breve comparsa nell’estate 2020, poi via: la cometa C/2002 F3 (Neowise), così soprannominata dagli astronomi che l’hanno individuata, non dovrebbe rivedersi da queste parti per almeno altri 6.800 anni. La sua particolarità però è un’altra: si pensa, infatti, che provenga da una delle parti più remote del Sistema solare, la Nube di Oort. Ovvero, una zona dell’universo oltre la cintura di asteroidi e giganti gassosi, oltre Urano e Nettuno e pure oltre l’orbita di Plutone. Si trova anche dopo l’eliosfera, cioè la bolla di plasma emessa dal Sole. La Nube di Oort, a sua volta, si pensa avvolga il Sistema solare, ma non se ne ha certezza: nessuna sonda mandata dalla Terra si è mai spinta a questa distanza, e gli scienziati non l’hanno mai vista direttamente. Voyager 1, la navicella più lontana mai lanciata (il suo viaggio è iniziato nel 1977 con l’obiettivo di esplorare il sistema solare esterno) dovrebbe impiegare almeno 300 anni prima di poterci arrivare. La Nube di Oort rimane quindi un mistero, ma alcune ricerche e missioni spaziali stanno fornendo qualche indizio in più.
Nube di Oort, origine sconosciuta
La nube fu teorizzata da Jan Oort nel 1950 per spiegare l’esistenza delle comete Neowise, la cui origine era molto più incerta rispetto a quelle di breve periodo: queste ultime impiegano meno di 200 anni per orbitare intorno al Sole e provengono dalla fascia di Kuiper, un disco ghiacciato che si trova oltre Nettuno. Non si riusciva a capire, invece, da dove venissero quelle con orbite più lunghe, che di solito – nei casi più comuni – impiegano tra i 200 e i 1000 anni per completare un’orbita del Sole. Oort teorizzò che derivassero da un guscio di oggetti distanti, composto soprattutto di roccia e ghiaccio e molto al di fuori del Sistema solare. Una zona nello spazio che si troverebbe tra i 306 e i 756 miliardi di chilometri dal Sole, cioè 2000-5000 volte la distanza tra la Terra e la stella. La nube potrebbe estendersi anche fino a 29 miliardi di chilometri. Le sue origini sono però un mistero: si pensa possa contenere fino a centinaia di miliardi di planetesimi rocciosi, pezzi solidi di roccia o ghiaccio – simili alle comete – che spesso costituiscono gli elementi costitutivi dei pianeti. Ma si tratta di oggetti troppo piccoli per essere visti dalla Terra con i telescopi, anche i più potenti.
Nube di Oort, gli studi più recenti
Nell’Università di Leida, in Olanda, degli studiosi hanno utilizzato una serie di simulazioni al computer per capire come la nube si sia formata in circa 100 milioni di anni. Si tratta della prima ricerca che collega tutte le varie fasi della sua vita, e a non considerarle separatamente. «Non si è formata in modo semplice», ha spiegato alla Bbc Simon Portegies Zwart dell’ateneo olandese, «ma per una sorta di “cospirazione” della natura»: sembra infatti che pianeti, stelle e Via Lattea abbiano avuto tutti un ruolo nella sua formazione, innescando una serie di processi a catena. Questi studi hanno indicato che, con tutta probabilità, il Sistema solare non sia l’unico avvolto in una vasta nube ghiacciata, ma che questo tipo di processi siano una conseguenza naturale dell’evoluzione dei sistemi planetari. Tra le ipotesi vagliate dagli studiosi di Leida, anche quella che la Nube di Oort contenga materiale estraneo al Sistema solare, proveniente da altre stelle. Quantificarlo è al momento impossibile, ma gli studi suggeriscono che circa la metà del materiale interno alla nube, e un quarto di quello della parte esterna, potrebbero essere stati “rubati” altrove. Siano dunque alieni.
Nube di Oort, a cosa serve studiarla
Capire l’origine e la composizione della Nube di Oort, oltre alle comete che ne derivano, permetterebbe di comprendere meglio come si è formato il Sistema solare: gli oggetti della Nube sono incontaminati e si ritiene – ma anche qui siamo nel campo delle ipotesi – si siano formati contemporaneamente ai pianeti. «L’ideale sarebbe riuscire a prelevare del materiale per analizzarlo», ha detto Portegies Zwart. Farlo, però, non è facile: la già citata Voyager 1 ha coperto, in più di 40 anni, solamente un decimo della distanza dal bordo del Sistema solare. E sembra anche improbabile che possa arrivare fino in fondo senza prima schiantarsi. Non solo: la sua fonte di energia dovrebbe esaurirsi nel 2025, e anche gli altri quattro veicoli che proveranno a raggiungerla (Voyager 2, New Horizons, Pioneer 10 e 11) dovrebbero smettere di funzionare ben prima di giungere a destinazione. Nelle comete derivanti dalla Nube di Oort, gli scienziati hanno invece ritrovato monossido di carbonio, acqua e altri tipi di carbonio e silicato.
Prelevare materiale dalle comete della Nube di Oort è più complicato del solito, perché queste vengono scoperte solo pochi anni prima rispetto alla loro orbita più vicina al Sole, un lasso di tempo troppo breve per organizzare una missione in grado di entrare in contatto con una di esse. La nuova frontiera, quindi, sarebbe quella di utilizzare delle “orbite di parcheggio”, per far “riposare” i veicoli mandati nello spazio in attesa del passaggio di una cometa da analizzare. Uno di questi veicoli, il Comet Interceptor dell’Esa, dovrebbe essere lanciato nel 2029. Nel frattempo, nel 2023 sarà completata la costruzione di un telescopio (Vera Rubin Observatory, in Cile) che inizierà la cercare comete di lungo periodo derivanti dalla Nube di Oort: grazie a questo telescopio, sarà possibile “guidare” le navicelle che dovranno entrare in contatto con le comete della Nube. E, forse, si riuscirà ad avere un’idea un po’ più chiara del tutto.