Resta, non resta. E se resta fino a quando? Le domande sul destino di Mario Draghi che tengono in scacco partiti di casa e cancellerie europee mercoledì 20 luglio troveranno finalmente una risposta. Sta di fatto che, qualunque essa sia, nei palazzi dove economia e politica intrecciano i loro destini si guarda avanti. Nell’anno che verrà è prevista la tornata di nomine più ghiotta, non foss’altro perché tra i tanti scadono anche i vertici di quattro dei campioni industriali di cui il Paese dispone: Eni, Enel, Poste e Leonardo. I giochi sono già iniziati, i pretendenti molti e tutto dipenderà da chi si troverà più in odore di vicinanza con Palazzo Chigi, chiunque ne sarà l’inquilino, e con le segreterie della maggioranza che lo sosterrà.

Francesco Giavazzi, il bocconiano che da ultraliberista si è trasformato in ferreo statalista
In un caso o nell’altro però, una cosa è certa. Il dominus in materia non sarà più Francesco Giavazzi, il professore bocconiano che arrivato a Palazzo Chigi ultraliberista si è via via trasformato in ferreo statalista: una metamorfosi che ha lasciato gli osservatori basiti. Al suo super consulente Draghi in questi mesi ha lasciato mano libera, come a dimostrare che lui si occupava dei grandi temi macro delegando ai suoi la “bassa” cucina delle nomine. Ruolo che Giavazzi ha interpretato con tale convinzione e determinazione (leggi arroganza) al punto da creare qualche problema al suo dante causa. Nonché qualche mal di pancia di troppo al Quirinale, che ha avuto il suo apice con l’estromissione di Giuseppe Bono dalla guida di Fincantieri per la cui riconferma Sergio Mattarella attraverso la sua felpata diplomazia si era speso. Il Colle ha incassato lo sgarbo, ma non lo ha certo rimosso perché una caratteristica dei democristiani, specie quelli di sinistra, è di avere la memoria lunga.

I più preoccupati sono i manager di nomina 5 Stelle, vista l’eclissi del Movimento
Mai più Giavazzi dunque, anche se per caso di fosse ancora Draghi. Ma si farà di tutto, magari giocando sapientemente con le date delle assemblee, perché non ci siano l’ex banchiere centrale e il suo fido consulente a dirigere le danze. Sono alcune delle valutazioni che in queste ore stanno facendo i vari capi azienda, ognuno dei quali prefigura a tavolino lo scenario politico che più gli conviene. I più preoccupati sono professori e manager di nomina 5 Stelle, visto che l’eclissi del Movimento li lascia orfani di tutela. Temono dunque per la loro sorte Michele Crisostomo, Lucia Calvosa e Luciano Carta, presidenti di Enel, Eni e Leonardo, portati in alto dall’onda grillina montante. Avvocati, commercialisti, generali che il drastico ridimensionamento dei pentastellati farà tornare al loro lavoro di stimati professionisti e servitori dello Stato.

Claudio Descalzi a Eni sembra intoccabile, data l’emergenza energetica
Ma ovviamente la partita vera si gioca sugli amministratori delegati, quelli che hanno le deleghe che contano, dunque il vero potere. Due di loro sembrano impermeabili ai possibili cambi di stagione. Uno è Claudio Descalzi. Anche se arrivato alla fine del suo terzo mandato al vertice di Eni il manager sembra intoccabile in una fase in cui l’energia è un fattore di crisi destabilizzante per tutto l’Occidente. L’altro che ha buone possibilità di restare è Matteo Del Fante, che in questi anni ha tenuto Poste fuori dalle convulsioni della politica costruendosi un’immagine bipartisan e molto istituzionale, come nei mesi della pandemia dove l’azienda, nella totale baraonda delle piattaforme regionali, garantì con il proprio software l’ordinato funzionamento dei sistemi di prenotazione.

Starace e il rapporto turbolento con il governo Draghi
Diversa la situazione di Francesco Starace all’Enel, anche lui giunto alla fine del terzo mandato vantando ottimi risultati ma un rapporto turbolento con governo Draghi di cui ha spesso contraddetto la politica energetica incarnata dal ministro Cingolani (è un radicale sostenitore delle rinnovabili) e la collocazione geopolitica con la rigida chiusura a Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina. Starace può sicuramente ambire al quarto mandato se a Palazzo Chigi si insedierà una nuova maggioranza.

Alessandro Profumo, ad di Leonardo e manager col cuore a sinistra
Cosa che forse avvantaggerebbe anche un altro manager di peso, Stefano Donnarumma, l’ad di Terna che unico tra i boiardi di Stato nell’aprile scorso ha presenziato alla convention milanese di Fratelli d’Italia senza che peraltro Giorgia Meloni, e soprattutto il suo ascoltato consigliere Guido Crosetto, lo consideri organico al suo raggruppamento. Non avvantaggerebbe invece Alessandro Profumo, ad di Leonardo e manager col cuore a sinistra, uno dei pochi banchieri che nel 2007 votò alle primarie del Pd che incoronarono Walter Veltroni alla segreteria e più volte resosi disponibile con i governi di centrosinistra per incarichi ministeriali.

Cassa depositi e prestiti è un ente troppo importante per usare l’accetta
L’altro grande punto di domanda riguarda Cdp, il braccio pubblico di investimenti che ogni governo vuole avere totalmente schierato dalla sua parte per la delicatezza dei dossier da affrontare. Non a caso Draghi preferì Dario Scannapieco a Fabrizio Palermo, che puntava con decisione e buoni sponsor alla riconferma. Inevitabile dunque che con un cambio di maggioranza politica le tensioni si rifletterebbero immediatamente negli uffici di via Goito, quartier generale romano della Cassa. Con la sostituzione di Scannapieco? No, primo perché il manager arrivato dalla Bei non è in scadenza. Poi perché Cdp è un ente troppo importante per usare l’accetta. Lo fece, caso unico nella sua storia, solo Matteo Renzi che estromise Franco Bassanini per mettere al suo posto i fidati Claudio Costamagna e Fabio Gallia. Se mai, sulla Cassa si rifletterebbero tutte le pressioni inevitabili quando gli assetti di governo mutano.

Con il centrodestra finirebbe la breve corsa di Carlo Fuortes alla Rai?
Un po’ come accade alla Rai, cartina di tornasole di ogni sommovimento nelle stanze della politica. Con il centrodestra finirebbe la breve corsa di Carlo Fuortes alla guida della televisione pubblica? Sì, ma anche qui non subito. Per l’ex sovrintendente dell’Opera di Roma la parabola potrebbe essere simile a quella del duo Foa-Salini che sopravvissero per oltre un anno al passaggio dal gialloverde Conte 1 al giallorosso Conte 2. E poi, fanno osservare maliziosamente gli esegeti di viale Mazzini, nelle ultime tornate di nomine Fuortes si è speso senza parsimonia per accontentare gli appetiti di Meloni che chiedeva più spazio per i suoi.