Noi schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa (Laterza) è il nuovo libro di Valentina Furlanetto. Attraverso le storie e le testimonianze di lavoratori stranieri – dai rider africani alle badanti ucraine fino agli allevatori sikh – la giornalista racconta il nuovo schiavismo in Italia. Tag43 pubblica un estratto dal capitolo dedicato alle badanti.
Manuela
«Sono rumena, ho 52 anni, faccio la badante per 1.000 euro scarsi che non bastano. A Bucarest c’è la mia bimba, mia figlia, l’unica ragione di vita. Ha 20 anni, frequenta l’università e mi servono soldi da mandarle. Per questo, oltre che lavorare come badante, mi prostituisco». Manuela viene da Sighisoara, la patria di Vlad Tepes, il conte Dracula, quella Transilvania dichiarata Patrimonio Unesco. È arrivata in Italia nel 2006 clandestinamente. Ha pagato 4.000 euro per il passaggio in auto, l’attraversamento della frontiera e il contatto con una famiglia che cercava una badante. I documenti ovviamente le vennero sequestrati in anticipo e le sono stati restituiti solo dietro il pagamento di una cifra pari al debito contratto. È stata vittima di quel racket che è il sistema con il quale le badanti rumene arrivavano talvolta in Italia.
«Mia figlia ha 20 anni, frequenta l’università e mi servono soldi da mandarle. Per questo, oltre che lavorare come badante, mi prostituisco»
«Avevo 38 anni e non sapevo come fare per mantenere mia figlia che andava in prima elementare – racconta seduta su una panchina alla stazione centrale di Milano –, mio marito beveva, perdeva continuamente il lavoro, me ne sono andata di casa, sono tornata da mia madre con mia figlia, ma non riuscivo a mantenermi. Allora una mia compaesana mi ha detto che conosceva un intermediatore, un trafficante, che poteva portarci in Italia a lavorare. Questo tizio ci ha trattenuto i primi quattro o cinque mesi di stipendio, per ripagare le spese di viaggio e il contatto lavorativo». Da lì per Manuela è una odissea di famiglie diverse, lavori gravosi, vessazioni, umiliazioni. L’ultima famiglia l’aveva messa in regola, ma con l’inizio della pandemia «la figlia della signora ha perso il lavoro e quindi ha iniziato ad avere problemi economici e anche meno bisogno di me perché lei non lavora più e può occuparsi della madre, mi ha messo a part-time e guadagno meno. Io non la giudico, anche per lei non è un momento facile, lo capisco. Ma ora sono in grossa difficoltà».
Lilia
Anche chi poi riesce a rialzarsi, a rifarsi una vita, a trovare dignità e sicurezza spesso ha un passato difficile. È il caso di Lilia Bicec, che è partita dalla Moldavia come giornalista, ha fatto la badante per 11 anni (tre da clandestina). «Sono partita il 13 dicembre 2000, Santa Lucia. Era l’alba, ho dato un bacio ai miei figli, Cristina e Stasi, che dormivano nei loro letti, e ho chiuso la porta. Cristina e Stasi avevano 10 e 8 anni, erano dei bambini. Non sapevo quando li avrei rivisti, speravo di stare via un anno, sono stata lontana da loro 11 anni». Che avrebbe dovuto fare Lilia, che lavorava per meno di 100 euro al mese alla rivista Lunca Prutului (Pianura del Prut), organo del Partidul liberal? Che avrebbe dovuto fare con un marito violento e alcolista che non lavorava e la picchiava? Miei cari figli, vi scrivo (Einaudi) è il libro che Lilia ha dedicato a Cristina e Stasi. Ed è anche un grido di dolore di un popolo, il popolo delle badanti. Lilia Bicec è nata a Viisoara nel 1965, si è laureata in giornalismo all’università Statale di Chisinau nel 1989. Nel 1998 ha vinto una borsa di studio ed è andata negli Stati Uniti a studiare, quando è tornata il confronto fra la libertà di espressione e il benessere di cui godeva negli Usa e la realtà della Romania è stato schiacciante. La storia familiare di Lilia è dolorosa: include i ricordi dei genitori deportati in Siberia, a Kurgan, e proprio leggendo Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn Lilia impara l’italiano. «Ho iniziato così. Poi per anni mi sono scritta le parole sulle mani, ogni parola nuova che imparavo me la scrivevo con una penna sul palmo per ricordarmela». La mattina del 13 dicembre 2000 quando Lilia bacia i suoi figli e se ne va ha appena consegnato ai trafficanti 1.400 euro per il viaggio. Non è sola, con lei ci sono altre donne. Dopo aver pagato gli intermediatori Lilia ha in tasca solo 160 euro, quello che le rimane.
«Ero infelice, ma ero prigioniera perché ero clandestina, quindi non avevo modo di dire nulla, né di protestare, né di far valere i miei diritti»
Attraversano in autobus l’Ucraina, la Repubblica Ceca, la Slovacchia. Dalla Repubblica Ceca proseguono a piedi verso la Germania, di notte camminano a lungo sotto la pioggia, attraversano boschi, valicano il confine. Ma vengono arrestate. «Ricordo l’umiliazione delle foto segnaletiche e del dovermi spogliare. Ci hanno riportato in Repubblica Ceca e ci hanno intimato di tornare nel nostro paese entro 10 giorni». Dopo pochi giorni però ci riprovano e riescono ad arrivare in Germania, salgono su un furgone e viaggiano verso l’Italia. Arrivano a Verona. «Non sapevo dove fossi. C’era la nebbia, ricordo di aver visto l’Arena. Poi sono andata a lavorare da una signora a Brescia. Era una signora nubile, analfabeta, ex colf, 89 anni. Pretendeva che la chiamassi ‘signorina’ e che le leggessi ad alta voce le preghiere. Passava un fazzolettino sulla credenza per controllare che l’avessi spolverata bene. Sono stati anni duri, di profonda umiliazione, dormivo in corridoio, al freddo, senza luce e riscaldamento, non mi lasciava usare il frigorifero, a cena mi dava un po’ di pane e mezza mela perché aveva fatto i calcoli e darmene una intera le sarebbe costato troppo. Ero infelice, ma ero prigioniera perché ero clandestina, quindi non avevo modo di dire nulla, né di protestare, né di far valere i miei diritti». Il racconto di Lilia è simile a quello di altre donne, rumene, moldave, ucraine. «A una mia amica, Veronica, il padrone di casa contava il numero di maccheroni nel piatto», dice Lilia. «Io diventai magra e triste. Ero una giornalista, ero laureata ma facevo un lavoro umile e mal pagato. Ero intelligente, ma non parlavo e scrivevo bene la lingua, era frustrante. Mi sentivo in colpa perché non riuscivo a dare quello che avrei voluto a Cristina e Stasi economicamente, inoltre ero lontana da loro. Scrivevo loro lunghe lettere che non mandavo». Stava precipitando in quella che in Moldavia chiamano la “Sindrome Italia”, la depressione delle badanti che hanno lavorato nel nostro paese.
«Prima di partire pensavo che in poco tempo avrei messo via un po’ di soldi per i miei figli invece continuavo a lavorare solo per ripagare il debito contratto per venire in Italia»
Per fortuna la famiglia successiva, dove Lilia lavora come babysitter, a Baricella, è una famiglia che la tratta bene. «Però i soldi erano sempre pochi. Prendevo 250 euro lavorando 24 ore su 24, ovviamente mi pagavano vitto e alloggio, però non riuscivo mai ad avere abbastanza soldi perché dovevo anche ripagare il debito. Prima di partire pensavo che in poco tempo avrei messo via un po’ di soldi per i miei figli invece continuavo a lavorare solo per ripagare il debito contratto per venire in Italia. Il tasso di interesse era del 15%. E tu sai che se non paghi cresce. In pratica sei una schiava». L’esodo di donne dalla Moldavia è massiccio e ha lasciato delle conseguenze sociali molto gravi. Ci sono circa 150.000 orfani bianchi, bimbi che crescono senza madri che spesso non riuscivano – a causa del regime dei visti – a vedere per molti anni. «All’inizio pensavo che le lettere che scrivevo le avrebbero lette i miei bambini una volta diventati grandi – racconta Lilia – così avrebbero capito perché ero andata via. Poi Stasi è morto purtroppo in un incidente. Ho pensato che se non aveva potuto leggere lui le lettere avrebbero dovuto leggerle tutti. Il libro è dedicato a mia figlia Cristina e alla memoria di Stasi e dei miei genitori».

Elisabetta
Quelle delle badanti non sono solo storie di umiliazioni e sfruttamento, ma anche di affetto e abnegazione. Elisabetta Cebotari, moldava di 58 anni, ad esempio, vive da otto anni con una novantenne che chiama «la mia signora Elvira», di cui si prende cura senza sosta. Ad ascoltare Elisabetta sembrano due naufraghe su una zattera. «Sono arrivata 18 anni fa in Italia, in quel momento ero senza lavoro, ero in grande difficoltà. Mi sono trovata bene, ho sempre lavorato con persone generose, che mi hanno capito, sostenuto e aiutato. Sono stata fortunata. Ora vivo a Brescia. Il 6 di marzo 2020 mi sono ammalata, ho avuto la febbre per una settimana, la situazione ha iniziato ad aggravarsi e ho chiamato il 118. Sono arrivati subito, mi hanno visitato, preso i parametri e mi hanno detto che mi dovevano ricoverare per sospetto coronavirus. Non mi hanno fatto il tampone. In quei giorni lo facevano solo le persone molto gravi, ma avevo tutti i sintomi. Ho firmato per non essere ricoverata, non ho voluto andare all’ospedale perché non volevo lasciare la Elvira. Lei ha 97 anni, è sola, ha soltanto me, non potevo abbandonarla. Mi occupo di lei di notte e di giorno ‘faccio le ore’, le pulizie in case di alcune famiglie. Come avrei potuto lasciare la Elvira a casa da sola? In quel momento eravamo in lockdown, tutto era chiuso, non avrei potuto abbandonarla. Allora ho chiamato il mio medico via Whatsapp, lui è stato bravissimo, mi ha dato la cura, è stato molto gentile, ogni giorno mi chiamava per sapere come stavo e mi sono curata così. Ero preoccupata anche per lei, avevo paura di trasmetterle il virus, ma la scelta era tra abbandonarla o restare. Sono restata. Purtroppo dopo pochi giorni anche la Elvira ha iniziato ad avere la febbre, un po’ di tosse, insomma anche lei aveva i sintomi. L’ho curata a casa, ero angosciata, ma alla fine è andata bene, anche lei è guarita. Il mio medico di famiglia mi ha aiutato molto ed ha aiutato anche lei perché il medico di Elvira era appena andato in pensione, quindi ha fatto tutto il mio medico di base. Però io per quattro settimane ho avuto mal di testa, mal di ossa, tosse terribile, non riuscivo a respirare. Mio figlio mi portava le medicine e la spesa sul pianerottolo. Avevo paura perché sapevo che la situazione a Brescia era pesante. Ma io e la mia signora da sole abbiamo lottato e alla fine abbiamo vinto».
«Come avrei potuto lasciare la Elvira a casa da sola? In quel momento eravamo in lockdown, tutto era chiuso, non avrei potuto abbandonarla»
Non a tutte è andata così. Una compaesana di Elisabetta, che viveva a Bologna ed era la badante di un anziano che si è ammalato di coronavirus, si è ammalata a sua volta ed è morta. «Mi aveva telefonato una settimana prima e mi aveva detto che aveva paura perché il nonno che assisteva aveva il coronavirus. E infatti poi si è ammalata anche lei ed è morta in pochi giorni». Il coronavirus ha investito anche la Moldavia. «Noi stranieri lottiamo su due fronti, perché la situazione qui è stata difficile, quindi eravamo preoccupati per la nostra situazione in Italia, ma eravamo contemporaneamente preoccupati per la situazione in Moldavia. Lì non ci sono mascherine, gli ospedali non sono attrezzati, di medici ce ne sono pochi perché chi ha studiato medicina e ha potuto è andato via, è venuto in Europa occidentale per lavorare. Non dormo di notte per la preoccupazione per i miei fratelli, i miei nipoti». La giornata di Elisabetta ora è scandita dai diversi lavori, praticamente senza sosta. La mattina va a fare la colf, poi verso le undici va da Elvira, la veste, le prepara il pranzo, la aiuta a mangiare poi torna a fare la colf presso diverse famiglie. Verso le 17 torna da Elvira e sta con lei fino alla mattina. «Abbiamo un rapporto bellissimo, lei è brava, è lucida tranne qualche vuoto di memoria ultimamente. Io non la lascio, resterò fino alla fine. Certo che è faticoso, mi alzo sempre due o tre volte per notte. Lei poverina ha dei momenti di poca lucidità, non ricorda dove è, non sa più chi sono. A questa età è così. Ma io finché resisto, vado avanti». Elvira ha un fratello che va a trovarla una o due volte a settimana. E basta. Dopo un anno dal suo arrivo in Italia il marito di Elisabetta in Moldavia si è ammalato. Anche se lei aveva il suo debito da pagare qui e guadagnava poco, iniziò a mandare i soldi a casa perché lo curassero. Lo hanno fatto i figli a casa da soli. Ma il marito non ce l’ha fatta e i ragazzi sono rimasti senza qualcuno che potesse accudirli. «Sono stata lontana dai miei figli, senza mai vederli per tre anni e otto mesi – dice Elisabetta –, ho contato gli anni, i mesi e i giorni, ma non voglio ricordare, perché ricordare mi fa stare male. Quando ho potuto ho chiesto il ricongiungimento familiare. Oggi mia figlia vive a Milano, è sposata ed ha due figli. E mio figlio vive qui a Brescia».
Badanti e racket
Tutte le donne che ascolto hanno pagato per venire in Italia, molte sono state vittime di un vero e proprio racket. Ancora oggi l’intermediazione è la formula attraverso la quale molte donne rumene, moldave e ucraine arrivano. Le inchieste sono tante. A Varese a luglio 2020 si è concluso il primo atto giudiziario di una vicenda venuta alla luce grazie alle indagini della Squadra Mobile e dei carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro iniziate nel 2014. Secondo le accuse almeno 150 badanti sono state reclutate in Romania e poi portate in Italia con la scusa di un lavoro sicuro, ma una volta qui sono state sfruttate e malpagate. Molte sborsavano 600 euro per un viaggio in furgone, quando arrivavano alla stazione di Varese venivano indirizzate presso un appartamento e arruolate per fare le badanti in alcune famiglie della zona, anche se poi lo stipendio non andava direttamente alle badanti, ma all’agenzia che ne tratteneva una quota consistente, una sorta di “pizzo”, un guadagno ottenuto in maniera del tutto illegale e non giustificato, perché il contatto di lavoro non era giuridicamente valido e dunque le lavoratrici erano in nero. Amministratrice unica di una delle tre cooperative sociali, tra Gavirate e Azzate, era una signora di 68 anni, Laura Bolognese, di Besozzo, finita sotto indagine, ma deceduta prima che si arrivasse a una prima sentenza (nel suo caso di non luogo a procedere per estinzione dei reati per morte del reo). Secondo la ricostruzione del pubblico ministero Massimo Politi i responsabili delle cooperative reclutavano le future badanti in Romania, le mettevano in contatto con i datori di lavoro e predisponevano i contratti (mai registrati). Con le accuse di associazione per delinquere, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro sono state indagate diverse persone. Fra loro anche due donne rumene, una era la proprietaria del furgone che portava in Italia le badanti, la seconda era padrona dell’appartamento di Varese in cui le donne venivano “ospitate”. La prima ha scelto di patteggiare: due anni di reclusione, 500 euro di multa (pena sospesa) e risarcimento delle spese legali a tre badanti che si sono costituite parte civile. La seconda è stata rinviata a giudizio per associazione e intermediazione illecita.
Secondo le accuse almeno 150 badanti sono state reclutate in Romania e poi portate in Italia con la scusa di un lavoro sicuro, ma una volta qui sono state sfruttate e malpagate
Ma il traffico e lo sfruttamento delle badanti dell’est è continuo e le cronache giudiziarie ne sono piene. Un’altra inchiesta sempre nella zona di Varese si è conclusa in primo grado a ottobre 2020 con quattro condanne per un totale di sette anni di reclusione, due rinvii a giudizio e tre assoluzioni nei confronti di varie persone, italiane e straniere, accusate di associazione per delinquere, intermediazione illecita, sfruttamento del lavoro (“caporalato”) e favoreggiamento della permanenza sul territorio dello Stato di stranieri irregolari. Rinviata a giudizio Olena Kuts, ucraina, considerata una delle due menti dell’organizzazione che, secondo gli inquirenti, avrebbe fatto entrare in Italia in maniera irregolare centinaia di donne dell’Europa dell’est. Queste, dopo aver pagato una quota di ingresso all’associazione “Badante brava” di Varese, venivano assegnate a famiglie dove prestavano assistenza agli anziani. Ma non in regola. Un’organizzazione che sarebbe stata composta essenzialmente da donne e uomini ucraini, oltre a un italiano che avrebbe messo a disposizione l’alloggio Aler della madre, e ai cui vertici ci sarebbe stata la russa Svitiana Penzyeva. Storie simili si leggono nelle cronache di altre città. A maggio 2020 un’imprenditrice di 46 anni di San Lazzaro è stata arrestata dalla Guardia di Finanza di Bologna e posta agli arresti domiciliari con le accuse di sfruttamento e intermediazione illecita per aver sfruttato 300 badanti per lo più provenienti dall’est Europa. Sotto sequestro sono finite diverse società e cooperative, tra Bologna e Casalecchio, che si occupavano di gestire il servizio badanti diurno e notturno in tutta la provincia. Secondo le accuse la quarantaseienne avrebbe approfittato della condizione di vulnerabilità economica delle sue collaboratrici – spesso da poco in Italia – per farle lavorare sottocosto. A una badante che doveva garantire il servizio 24 ore al giorno potevano essere corrisposti anche solo 1.000 euro, senza riposo né ferie, né altre tutele. Truffate anche le famiglie che si rivolgevano alle sue agenzie perché pagavano anche 2.000 euro per il servizio .
Un paese per vecchi
Le tendenze demografiche dimostrano che la popolazione europea sta invecchiando molto rapidamente. Nei paesi dell’area Ocse la quota di popolazione con più di 65 anni è quasi raddoppiata in 40 anni, dal 9% del 1960 al 17% attuale, e si prevede che arriverà al 28% entro il 2050. Tradotto: tra 30 anni un abitante su quattro sarà un over 65. L’Italia da questo punto di vista è destinata a conservare il primato di paese più anziano di Europa, con l’età media più alta di tutto il Continente: nel 2050 gli anziani saranno il 34,3%, uno su tre . Questo comporterà inevitabilmente un aumento della domanda di servizi di cura e di assistenza a domicilio. Nel nord Europa l’alta pressione fiscale si traduce in servizi di qualità e protezione sociale diffusa, mentre il sistema italiano poggia fortemente sul sostegno della famiglia, vero e proprio “ammortizzatore sociale”.
In Italia nel 2050 gli anziani saranno il 34,3%, uno su tre
Il contributo pubblico si manifesta soprattutto attraverso deduzioni fiscali (a livello centrale) e apporto finanziario (generalmente a livello locale), spesso molto limitati. Purtroppo, anche se era facile prevedere tutto questo, non abbiamo investito sui servizi per gli anziani e il fenomeno delle badanti, assolutamente preziose per i nostri cittadini più in là con l’età, è conosciuto soltanto in Italia. In Germania ogni lavoratore versa una parte dei suoi contributi a un fondo che poi provvederà ad assisterlo quando sarà anziano. In Inghilterra esistono strutture protette, chiamate sheltered houses, che sono dei piccoli complessi residenziali per 8-9 anziani. Ci sono spazi comuni per conversare, il servizio di una cuoca, il fisioterapista, il medico ma ognuno ha anche la sua camera privata. I costi sono divisi fra gli anziani presenti. In Spagna ci sono le cortes, che sono simili al meccanismo inglese. La residenza per anziani in Italia ha costi spropositati, non tutti se la possono permettere, e quelle pubbliche sono poche e hanno pochi posti letto. Secondo la Commissione europea, il parametro di riferimento di residenze sanitario-assistenziali dovrebbe essere di 50/60 posti letto ogni 1.000 abitanti over 60. La media Ocse si attesta a 49,7 mentre la disponibilità di posti in Italia si ferma a 19,2. Solo Turchia, Lettonia e Polonia fanno peggio di noi.
Solo il 2% delle oltre 12.200 strutture residenziali italiane è pubblico, mentre la quota restante è di privati accreditati con il Ssn, alcuni profit, altri no profit, altri ancora gestiti da istituti religiosi
Proprio nelle aree che invecchiano di più – le regioni del Meridione – la presenza di strutture di assistenza è carente. Non che il nostro paese non si muova, ma l’aumento dei posti letto offerto – in Italia sono aumentati del 3,3% dal 2005 al 2015 – non è al passo con la domanda di assistenza. Anche perché il pubblico ha sempre meno risorse a disposizione da investire per i servizi dedicati agli anziani, anche in termini di assistenza domiciliare integrata. Secondo il Rapporto Oasi 2017 del Cergas-Sda Bocconi il numero di ore medie erogate per anziano in carico è calato in un anno da 21 a 17. Chi ha in mano l’assistenza in Italia? Solo il 2% delle oltre 12.200 strutture residenziali italiane è pubblico, mentre la quota restante è di privati accreditati con il Sistema sanitario nazionale, alcuni profit, altri no profit, altri ancora gestiti da istituti religiosi. Pochi riescono a entrare in quelli pubblici, pochi possono permettersi quelli privati. Non ci resta che “il welfare fai da te”, e cioè le badanti: le abbiamo inventate noi, lì dove la domanda di assistenza italiana si incontra con una offerta internazionale che nasce da povertà e miseria. Con tutte le storture che ne derivano, in un magma che mescola esistenze pulsanti e diverse: quella dell’anziano o del disabile, quella della badante e dei suoi famigliari lontani, quella dei familiari dell’assistito, quella degli intermediari che campano sul lavoro altrui. Un incrocio di vite, di dolore e di destini dove ogni genere di tensione cova ed esplode.