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Nobiltà, patrimoni dilapidati e il ricordo di Charly: il racconto della settimana

La giacca che porto stasera ha al suo interno l’etichetta Ferdinando Serbelloni, mio zio. Del resto gli abiti sono le uniche cose che ho ereditato dalla mia famiglia. Mentre sorseggio cocktail con l’ego ai massimi livelli, in realtà sono piuttosto triste. Oggi sono esattamente 20 anni che non ci sei più Charly. Il racconto della settimana.

9 Aprile 2022 09:562 Gennaio 2023 13:00 Andrea Frateff-Gianni
Nobiltà, patrimoni dilapidati e il ricordo di Charly nel racconto della settimana

Un noto brand di design ha organizzato un evento in un palazzo settecentesco del centro al quale sono stato invitato, così adesso sono qui, stretto un abito grigio di Caraceni, consumato sulle maniche, che al suo interno ha un’etichetta con dentro scritto Ferdinando Serbelloni, il nome di mio zio. Alla fine, gli abiti, insieme a gran parte del suo guardaroba, sono le uniche cose che ho ereditato dalla mia famiglia. Penso a questo mentre sorseggio un drink che sa di ribes e mora selvatica e penso all’unico articolo di giornale che ho avuto voglia di leggere questa settimana, sfogliando distrattamente il Corsera, completamente nudo, seduto sul cesso l’altra mattina.

Il titolo, a caratteri cubitali, recitava: “La mia è una famiglia nobile, a scuola me ne vergognavo”, e di seguito riportava una lunga intervista a Serena Dandini, nelle cui risposte mi sono riconosciuto molto. «Innanzitutto, sono discendente di una famiglia aristocratica sì, ma decaduta, e poi da adolescente mi vergognavo, con i miei compagni di scuola, del cognome e dello stemma nobiliare, in cui non mi riconoscevo e da cui non avevo alcun vantaggio», diceva la Dandini, per poi proseguire: «Ho avuto di più la consapevolezza della decadenza, anche economica: non c’è niente di definitivo, tutto può cambiare all’improvviso, dalle stelle alle stalle, come si suol dire. Si può nascere in un posto al sole e conoscere poi il lato oscuro. Mio padre si era mangiato tutto, era rimasto solo lo stemma, che non so neanche bene cosa rappresenti».

nobili e fortune dilapidate nel racconto della settimana
Keith Haring.

Immediatamente, nella stessa posizione in cui è ritratto Keith Haring, in una celebre foto mentre è seduto sopra un water, mi sono così messo a pensare alla prima volta che ho provato a decifrare lo stemma di famiglia senza capirci un accidenti. Lo stemma stava in un quadro, appeso sopra il letto di camera di mia nonna a Palazzo Fidia e da sempre nel mio immaginario di cucciolo riportava a storie antiche e avventurose, fatte di draghi, cavalieri e dame da salvare. Morta la nonna e scomparso l’appartamento a Palazzo Fidia ricordo che lo vidi solamente un’altra volta, anni dopo, affisso nell’anta di un armadio, quasi nascosto, a casa di mia zia Pia, in via dei Transiti, dove ci trasferimmo poco tempo dopo. Furono anni piuttosto difficili, quasi dickensiani, con i creditori perennemente alle calcagna, le bollette pagate sempre in ritardo e le ingiunzioni di sfratto che si susseguivano una dopo l’altra senza soluzione di continuità. Situazioni nelle quali, effettivamente, uno stemma nobiliare affisso in salotto o in camera, di fianco al comodino, sarebbe risultato piuttosto grottesco oltre che completamente ridicolo. «Se per creare il fascino vero bisogna aver fatto fuori almeno un paio di patrimoni familiari», come di recente ha scritto Michele Masneri sul Foglio, raccontando la storia di Gelasio Gaetani dell’Aquila d’Aragona Lovatelli, posso tranquillamente dire che non temo confronti, partendo avvantaggiato come sono stato fin dalla nascita, mollemente adagiato su rovine prestigiosissime.

 

Furono anni piuttosto difficili, con i creditori alle calcagna e le bollette pagate sempre in ritardo. Uno stemma nobiliare in salotto o in camera sarebbe risultato piuttosto grottesco oltre che ridicolo

 

Così me ne sto qui, con la mia giacca sartoriale con dentro scritto Serbelloni, a questo cocktail organizzato dal noto brand di design con il quale ho collaborato per un lavoro strapagato (che non sto qui a raccontarvi, perché l’esclusiva è stata concessa a Vogue e non ho nessuna voglia di avere problemi), e nonostante il mio ego sia ai massimi livelli e la mia coda di pavone completamente spalancata, in realtà, sono piuttosto triste. Oggi sono esattamente 20 anni che non ci sei più Charly. Penso a te, non chiedermi il motivo, ma penso alla prima volta che ci siamo fatti una riga insieme a Moltrasio, sul tavolo di cristallo del salotto, ed era appena finita l’estate e tu eri appena tornato da Cambridge con il cranio rasato a zero e io avrò al massimo avuto 15 anni. Ricordo i discorsi di quel pomeriggio, tu che mi parlavi di Londra e di una ragazza di nome Carolina e ricordo la mia sensazione di interesse mista a invidia, dato che io l’estate l’avevo trascorsa a Rapallo, come sempre, avvolto in una noia mortale. Ricordo le due righe lunghe e sottili stese davanti a noi sul tavolo di cristallo e di quanto siamo stati bene, quel pomeriggio. Eravamo inseparabili noi due, fin da cuccioli, vestiti alla marinara come i rampolli di casa Agnelli e la gente pensava fossimo gemelli quando uno di fianco all’altro sedevamo nei ristoranti degli alberghi di Arma di Taggia o di Milano Marittima, anche se in realtà eravamo solo cugini. Quando ricevetti quella maledetta telefonata ero al Parco Sempione e avevo bigiato scuola con alcuni compagni di classe ed ero sconvolto perso da quanto avevo fumato e non riuscivo a credere alle parole di tua sorella Cristina che mi diceva che ti eri sparato in bocca nella Jacuzzi con la pistola di tuo padre. E ancora oggi, quando mi torni in mente, rifletto su quanto fosse così poco adatto quel soprannome che ti avevano affibbiato per il tuo carattere, all’apparenza, così brillante ed estroverso. Champagne Charly.

*I nomi e i fatti narrati sono frutto di fantasia.

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