Il ritorno di fiamma della guerra lampo tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno Karabakh ha dimostrato ancora una volta come il Caucaso rimanga una polveriera. Non è una novità, dato che i conflitto tra i due Paesi è esploso 30 anni fa, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Ora i leader sono ai ferri corti: il premier armeno Nicol Pashynian e il presidente azero Ilham Aliyev si incontreranno a metà dicembre a Bruxelles per tentare di mettere un coperchio alla pentola che bolle. Compito difficile se non impossibile, visto in primo luogo le radici profonde e intricate dello scontro e in secondo proprio i due personaggi che lo dovrebbero pacificare. Se Aliyev è ormai da quasi due decenni una figura conosciuta sulla scacchiera internazionale, autocrate riverito in Occidente, con cui Europa e Stati Uniti fanno affari a base di gas e petrolio senza preoccuparsi troppo dei deficit democratici, Pashynian è ancora una sorta di rebus: arrivato alla guida del governo di Erevan tre anni fa dopo una rivoluzione pacifica, ha poi contribuito a trascinare l’Armenia in una guerra che è costata molte perdite, a livello militare e territoriale.
Pashynian, dal giornalismo alla politica
Se Aliyev all’inizio degli Anni 2000 aveva ereditato l’Azerbaijan da suo padre, leader storico dopo la transizione postcomunista e capo di Stato fino al 2003, Pashynian a quei tempi faceva ancora il giornalista. Nato nel 1975, negli Anni 90 dopo gli studi all’università, aveva cominciato a lavorare nelle testate d’opposizione, tra guai giudiziari e attentati, con addirittura la sua auto fatta esplodere da una bomba. Lavoro pericoloso quello del reporter, non solo in Armenia, ma un po’ in tutta l’ex Urss, soprattutto se si vanno a pestare i piedi dei potenti. Da qui la decisione di trasformarsi in politico di professione. Si è presentato per la prima volta alle elezioni 2007, candidandosi nelle fila di un piccolo partito di opposizione dal nome significativo, Impeachment, che chiedeva appunto un radicale cambiamento politico, puntando al siluramento dell’allora presidente Robert Kocharian e del primo ministro Sergei Sargsyan. Fu un fallimento e Pashynian vide il passaggio di Sargsyan alla presidenza alla successiva tornata elettorale, vinta proprio contro il candidato con cui si era schierato, Levon Ter Petrosyan, primo presidente dell’Armenia indipendente dal 1991 al 1998.
Il carcere e la fondazione del partito Contratto civile
La vittoria di Sargsyan non fu riconosciuta dall’opposizione, ci fu una mini rivoluzione, Pashynian venne arrestato e condannato a sette anni di galera. Uscì dopo un’amnistia nel 2011, in tempo per fondare un partito proprio, Contratto civile, e presentarsi alle Parlamentari del 2011. Raccolse il 7 per cento, così come a quelle del 2017, sempre all’opposizione e sempre contro il blocco guidato da Sargsyan. Poi il 2018 e la vera rivoluzione. Il duello decennale Sargsyan contro Pashynan si è risolto alla fine non nelle urne, ma nelle piazze armene, pacificamente, con la gran parte della popolazione a decretare la fine del potere del primo e la sua consegna nelle mani del secondo. Una transizione certificata poi con l’elezione a premier e l’arrivo alla presidenza di Armen Sarkisyan.
La retorica nazionalista contro l’Azerbaigian e l’appoggio di Putin
La vittoria interna di tre anni fa ha però innescato una spirale negativa sul versante internazionale. Il nuovo primo ministro non è riuscito a mantenere le promesse per riformare il Paese e braccato dalla variegata opposizione interna si è rifugiato nella retorica nazionalista contro l’Azerbaigian, trovando dall’altra parte pane per i suoi denti, con Aliyev pronto a ingaggiare il duello nella regione contesa del Nagorno Karabakh, conflitto tutt’altro che congelato e scoppiato appunto con virulenza nell’autunno del 2020. Dopo quasi 50 giorni di guerra e oltre 6 mila morti su entrambi i fronti, l’Armenia ha dovuto cedere alcuni territori e incassare una sconfitta che ha minato ancora di più la stabilità del Paese. Pashynian ha resistito comunque alle pressioni interne, grazie alla frammentazione dell’opposizione che non è riuscita a ribaltare il tavolo alle Parlamentari nella primavera di quest’anno, e tutto sommato continua a godere dell’appoggio di Vladimir Putin, con la Russia da sempre alleato dell’Armenia nel difficile gioco di equilibri nel Caucaso. Difficile prevedere però quanto durerà la tradizionale effimera stabilità e Erevan, con la questione del Nagorno Karabakh appesa a un filo come una spada di Damocle.