C’è un’emergenza sociale che non viene percepita. Impatta sui nostri giovani e sulla neuropsichiatria infantile che se ne occupa, e gli effetti sono rilevabili ovunque. Pensare sia colpa della pandemia, che pure ha contribuito, è fuorviante. La questione è molto più complessa perché tocca aspetti bio-psico-sociali di profondo cambiamento che probabilmente investono su più fronti il nostro Paese, che già di per sé ha differenze evidenti e sostanziali regionali e infra-regionali. Ma nonostante ciò le problematiche giovanili che ricadono a cascata sugli aspetti sanitari vengono affrontate come se, appunto, il comparto sanitario fosse un bosco sempre più malato ma pur sempre necessario perché la collina non frani sul paese di sotto: si continuano a piantare giovani alberi su un terreno ormai depauperato di risorse e poi ci si chiede perché non crescano belli e forti e il paese rimanga a rischio frana. E qui arriviamo al nocciolo più operativo del problema, la prima grande criticità: le risorse a disposizione.
Dove ricoverare quei giovani con ritardo cognitivo grave?
In tutta Italia i posti letto per il ricovero in ambiente neuropsichiatrico infantile dei bambini e dei ragazzi da 0-18 anni sono solo 395 a fronte di un fabbisogno di almeno 700; cinque regioni sono scoperte. Il 70 per cento dei ricoveri quindi avviene in reparti inappropriati, come la pediatria e la psichiatria adulti. Per non parlare dei ricoveri o gli ambulatori per la disabilità complessa grave… che non esistono se non in quantità esigua e sperimentale. Insomma: come e dove ricoverare o visitare quei bambini o quei giovani con ritardo cognitivo grave o profondo che non essendo in grado capire ciò che avviene intorno a loro e le cure che vengono loro date, reagiscono in modo esplosivo o non sono visitabili se non sedati? Forse basterebbe anche solo essere formati a riguardo, ma – amarum in fundo – mancano operatori sanitari. Neuropsichiatri, infermieri, educatori sanitari in primis.
Medici pagati poco e con un percorso formativo costoso
Al di là del numero chiuso e i pochi posti delle università e delle specializzazioni sanitarie, che sicuramente è un’argomentazione importante e fastidiosa, la vera verità è che si è pagati poco mentre il percorso formativo è costoso. L’accesso alle Scuole di Specializzazione mediche, a 24 anni se si è in regola con gli studi, è regolato da un concorso nazionale a graduatoria unica e la cosiddetta “borsa” del contratto di formazione specialistica è erogata in modo uniforme dal ministero dell’Università e dalle Regioni: 25 mila euro lordi, divisi in una quota fissa di 22.700 euro e una quota variabile di 2.300 euro i primi due anni e 3.300 dal terzo in poi. Lo stipendio netto è circa 1.650 euro al mese per i primi due anni e a circa 1.750 euro al mese per gli anni successivi e si pagano comunque le tasse universitarie.

Gli emolumenti derivanti dal contratto sono esenti dall’Irpef in quanto assimilati a una borsa di studio, e come tali non soggetti a tassazione per l’imposta sui redditi. Ma bisogna pagare annualmente la quota A del sistema previdenziale Enpam (129 o 260 euro all’anno a seconda dell’età) e quella di iscrizione all’Albo dell’Ordine dei medici (150 euro annui). La borsa di studio, ai sensi della legge n. 398/1989, non consiste di gettito reddituale computabile; questo significa che lo specializzando non può acquisire lo status di studente indipendente. Nell’attestazione Isee uno specializzando risulta ancora a carico della famiglia di origine.
Prima dei 30 anni uno specializzando risulta a carico di mamma e papà
Oltre a tali vincoli contrattuali, l’impegno a tempo pieno del medico in formazione nelle proprie attività formativo-assistenziale pone limiti alla possibilità di svolgere un “secondo lavoro” tale da poter avere un reddito sufficiente a costituire nucleo familiare autonomo (cioè una dichiarazione dei redditi superiore ai 6.500 euro annui). In pratica prima dei 30 anni uno specializzando risulta ancora a carico di mamma e papà ed è meglio che non faccia figli perché non può accendersi un mutuo. Se poi la specializzazione si trova a Milano o a Roma e lo specializzando è fuori sede, tra affitto, tasse universitarie, Inps, Enpam, Ordine dei Medici i conti sono presto fatti: rimangono all’anno circa 1.300 euro.
Neuropsichiatri con 200-300 pazienti attivi all’anno
A 30 anni si incomincia a lavorare a vera contribuzione: se non si è assunti nel pubblico o nel privato convenzionato l’onorario è al massimo 35 euro lordi l’ora; se si vince un contratto di assunzione, si sa anche come sono gli stipendi della sanità. E il carico di lavoro insieme alle responsabilità assomigliano al masso di Sisifo: attualmente alcuni neuropsichiatri del pubblico e del privato convenzionato hanno in carico anche fino a 200-300 pazienti attivi all’anno perché non ci sono colleghi. Educatori e infermieri sono pagati ancora meno. Però se si lavora privatamente, una visita neuropsichiatrica può costare dai 90 ai 150 euro che giustifica la complessità legale e di lavoro indiretto che verrà svolto, oltre a tutti gli studi e i sacrifici fatti nel passato e gli aggiornamenti in itinere. Per questo, quando i bandi pubblici vanno a vuoto, è beffardo chiedersi dove siano finiti i neuropsichiatri. Sono scappati, sempre che qualcuno continui a vedere in questa specializzazione un’opportunità.

Patologie che si sviluppano per colpa di fattori incrociati
Sulla carta la neuropsichiatria infantile comprende tutte le patologie neurologiche e psichiatriche dell’età evolutiva fino ai 18 anni. Ma in generale non è chiaro a tutti che quando si cura la mente di un individuo si parla di multifattorialità e di compromissioni biopsicosociali, a maggior ragione se si ha a che fare con i minori. Famiglia, ambiente, cultura di origine, educazione, sistema sanitario, giuridico e scolastico sono tutti ingranaggi che ruotano intorno al disturbo del minore con effetti sinergici sia in senso positivo sia in senso negativo.
Sempre più ricoveri per comportamenti autolesionistici e disturbi alimentari
Ecco la prima criticità: questi sistemi – famiglia, scuola, servizi sanitari, giuridici ed abilitativi – devono interagire, comunicare e condividere strategie ognuno per specifica competenza altrimenti la percezione settoriale è la classica goccia nel mare che alla lunga si esaurisce pure quella. In Italia i minori con disturbi di tipo neuropsichiatrico sono quasi 2 milioni, ossia tra il 10 e il 20 per cento della popolazione infantile e adolescenziale tra gli 0 e i 17 anni. Tra il 2020 e il 2022 gli accessi dei minori al pronto soccorso e i ricoveri in ospedale per cause legate ai comportamenti autolesionistici – pensieri, azioni e tentativi di suicidio – sono in preoccupante aumento. Nello stesso periodo sono triplicati i ricoveri per cause legate ai disturbi alimentari, come l’anoressia e la bulimia. Solo un minore su quattro viene preso in carico con fortissime ed evidenti disparità regionali. In meno di 10 anni è raddoppiato il numero dei minori che sono seguiti all’interno dei servizi della neuropsichiatria infantile, prevalenza di accesso che è quattro volte superiore a quella dei servizi di salute mentale adulti.

Problema sottovalutato, come accade col surriscaldamento climatico
Il motivo di questo raddoppio può avere tante cause, anche positive, come una maggiore capacità di diagnosi e di attenzione da parte delle famiglie o della scuola. Sicuramente però c’è una correlazione con il cambiamento esponenziale sociologico e ambientale provocato dalla globalizzazione tecnologica ed economica che ha avuto e continua ad avere un impatto inquinante sul benessere biopsicosociale sugli individui. Infatti, se ampliamo la panoramica a livello mondiale un minore su cinque manifesta problemi di salute mentale, peggiorati certo dalla pandemia ma anche da politiche sanitarie governative poco orientate a occuparsi di ciò che richiede un pensiero lungimirante, preventivo e tutelante le giovani generazioni. Esattamente come accade rispetto al surriscaldamento climatico. Tutti sanno e pochi fanno.
Mancanza di un pensiero strutturato a livello politico, sanitario e sociale
La seconda criticità è perciò la mancanza di un pensiero strutturato, reale e etico sulle nuove generazioni a livello politico, sanitario e sociale. Si rimuove il principio di indeterminazione che caratterizza la nostra specie sulla Terra e dovrebbe portare a considerare l’essere umano inserito in scatole cinesi comunicanti e complesse: il risultato è più della somma di tutti gli eventi, la quota di imprevedibilità è dietro l’angolo e vanno previsti diversi scenari per far fronte alle emergenze. Le politiche sanitarie e sociali paradossalmente applicano e amplificano il principio di indeterminazione osservando e intervenendo solo su una delle tante variabili, di solito quella diagnosticata burocraticamente e con protocolli medici, demandando implicitamente poi alle famiglie o alla società di farcela nel caso gli sviluppi prendano traiettorie diverse da quella prevista.

Il burn out degli operatori non è un mito: si sta allargando ovunque
Si applicano protocolli a compartimenti stagni, a partire dai servizi coinvolti. La terza criticità infatti è qui. Ospedale e territorio spesso non si parlano, o si parlano poco, o non si capiscono, o non sanno l’uno dell’esistenza dell’altro. Questo porta a un sovraccarico di lavoro e a una sempre maggiore esposizione a problematiche di rivendicazione delle famiglie, anche legali, rispetto a quanto (non) fatto che logora la tenuta del lavoro stesso. Davanti a richieste sempre più pressanti di famiglie, di enti giuridici, delle scuole non basta più neanche la buona volontà e l’umana comprensione del neuropsichiatra. Il burn out degli operatori non è un mito: esiste e si sta allargando in tutti i servizi.
Problema di location: strutture fatiscenti e poco attrezzate
In più c’è anche un problema di location. Le neuropsichiatrie ambulatoriali pubbliche, soprattutto territoriali, sono spesso in ambienti poco consoni per l’età evolutiva: posti fatiscenti, poco attrezzati per accogliere sia i minori sia le attività riabilitative e psicoterapeutiche o peggio molto connotati dal punto di vista medico. Non è solo una questione estetica, ma sostanziale della presa in carico neuropsichiatrica e per instaurare una relazione di cura. Tra l’altro la tanto invocata diagnosi precoce non significa veloce. Questa è una visione meccanicistica e mutuata dalla medicina organica eziologica: ho un effetto, trovo la causa, risolvo il problema. Il Dott. House non è quasi mai applicabile ai disturbi neuropsichiatrici. Anzi, a volte diagnosticare subito e intervenire di conseguenza può, tornando al principio di indeterminazione, influenzare il sistema e dirottarlo fino a confermare quella diagnosi in una sorta di profezia che si auto-avvera. Ci troviamo in un mondo pieno di disagio psichico e di disabilità cronica in aumento e coloro che dovrebbero occuparsene a livello pratico, etico e sanitario – i neuropsichiatri insieme ad altri operatori sanitari – sono sempre meno e sempre più loro stessi… disagiati e a corto di risorse.
Olivia Ninotti è neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta-direttrice sanitaria dell’Aias Ets di Milano.