Il pranzo di Natale e quello che rimane della mia famiglia: il racconto della settimana

Tra meno di un’ora dobbiamo prendere un treno per Como e poi saltare su un battello che ci porterà a Cernobbio per partecipare al pranzo di Natale con i parenti riuniti per la prima volta tutti insieme. Sono indeciso se piangere o vomitare. Come 23 anni fa quando guardavo mio padre, elegante e inarrivabile. Il racconto della settimana.

Il pranzo di Natale e quello che rimane della mia famiglia: il racconto della settimana

Natale 2022. Il risveglio. Al terzo piano di un palazzo Anni 60 in viale Regina Giovanna a Milano, l’appartamento è in totale delirio mentre fori dalla finestra in strada, in lontananza, si sente solo lo sferragliare di un tram. In mezzo al soggiorno un tavolo pieno zeppo di roba al centro del quale spiccano le foglie rosso semaforo di una Stella di Natale particolarmente rigogliosa. Poi: pile di libri, carte, quotidiani, taccuini, agende aperte, due coppe di cristallo, una bottiglia vuota di Perrier-Jouet, un iPhone che vibra al quale nessuno ha voglia di prestare attenzione. Per terra: pacchetti sventrati, carte da regalo stracciate, fiocchi, nastri di tessuto rosso, un paio di slip di pizzo nero, una lampada Flos nuova di zecca e dei pantaloni da yoga in tessuto tecnico con ancora attaccato il cartellino Nike. Di fianco al giradischi una pila di vinili ancora sigillati. Sul piatto un album live di Venerus giace immobile vicino a un portacenere straboccante di mozziconi. La stanza è illuminata solamente dalle luci a intermittenza di un gigantesco albero di Natale sotto il quale ci sono ancora una quantità di pacchetti ancora da aprire che sembra di stare da Harrods o dentro un film dei Vanzina. Di lato un divano grigio antracite. Seduta, il gomito sprofondato su un cuscino multicolore, ancora sonnolenta per le poche ore dormite, Ofelia, si allunga quieta e solleva le gambe, muove piano le dita dei piedi nudi, quasi scompare, nascondendosi sotto il disegno geometrico e psichedelico di una vecchia coperta Fendi. Poi, con noncuranza, si sfila un pulviscolo dalle ciglia. Sfoglia una rivista con disinteresse, beve un sorso di caffè, si accende una sigaretta, sbadiglia sbattendo lentamente le palpebre. Il vento soffia piano la mattina del 25 dicembre, Ofelia con indosso solo una collana di perle Akoya e i suoi bracciali di Tiffany, recupera una copia del Messaggero del giorno prima e cerca un articolo, firmato da me, di cui le ho parlato ieri. Quando lo trova, tra le pagine della cultura, protagonista a centro pagina, mostra un vago interesse per la fotografia messa a corredo del pezzo, sbadiglia ancora, beve un altro sorso di caffè. Su un cuscino, una copia delle memorie di Simone De Beauvoir. «Amore!», urlo da lontano, «ma dobbiamo proprio andare?», chiedo implorante. «Purtroppo sì, anche se sono stanca morta, sfi-ni-ta. Avrei bisogno di dormire una settimana».
Tra meno di un’ora dobbiamo prendere un treno dalla stazione di Cadorna per Como e poi saltare al volo su un battello che ci porterà a Cernobbio, sul lago, per partecipare al pranzo di Natale con i parenti riuniti per la prima volta tutti insieme. Sono indeciso se piangere o vomitare. Per l’occasione si è deciso di andare a Villa d’Este, eccezionalmente aperta quest’anno durante le feste per celebrare i suoi 150 anni. L’ultima volta che Villa d’Este è stata aperta a Natale, periodo durante il quale di solito è sempre chiusa per le vacanze invernali, era il 1999, per salutare l’arrivo del nuovo millennio. Ovviamente io c’ero anche quella volta.

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Una panoramica di Cernobbio (Getty Images).

Natale 1999. Cernobbio, Villa d’Este. Il ristorante La Veranda, situato all’interno dell’Edificio del Cardinale, offre un magnifico panorama sui giardini e sul lago. Le sue ampie vetrate accentuano l’impressione di essere immersi nel parco. Io e mio padre siamo seduti ad un tavolo, uno di fronte all’altro, lui beve uno Zucca, io ho ordinato un Campari soda, non mi sono ancora tolto gli occhiali da sole e cerco di evitare di guardarmi le mani, sicuro che stiano tremando. L’ultima volta che ci siamo visti, più o meno un anno fa, mentre era registrato sotto falso nome al Four Seasons di Milano, ha provato con l’inganno a farmi firmare delle carte davanti a due dei suoi avvocati per prolungare il suo ruolo di tutore, dopo averlo svuotato, del fondo fiduciario lasciatomi da mia madre, nonostante io fossi appena diventato maggiorenne. Ovviamente non è finita benissimo, e da allora non ci siamo più parlati. In definitiva sono qui solo perché mio fratello mi ha praticamente costretto a partecipare a questo assurdo pranzo con tutta la famiglia visto che questo è il primo Natale che passiamo senza mia cugina Cristina, morta improvvisamente una notte di quest’estate, e secondo lui è giusto che stiamo anche noi un po’ vicini allo zio Nando e alla zia Zena, ancora distrutti per la perdita della figlia. Mio padre, stretto nel consueto abito grigio in flanella con giacca doppiopetto a revers extra large e con addosso la solita camicia azzurra Brooks Bothers, mi guarda e cerca di sorridere, mostrando i denti incapsulati, quando mi chiede che regali ho ricevuto per Natale. Sono sorpreso dallo sforzo che devo fare per alzare la testa e guardarlo in faccia. «Niente», dico. Poi c’è una pausa durante la quale restiamo entrambi a lungo in silenzio fino a quando lui mi chiede, sorseggiando il suo Zucca: «Cosa vorresti?». «Non so, voglio solo un bel Natale», rispondo, tornando a guardarmi le mani. Un’altra pausa. «Sicuramente non hai bisogno di soldi». «No», gli dico, sentendo addosso tutto il sarcasmo della sua affermazione. «Mi sembri dimagrito», dice. «Già». «E pallido». «Sono le droghe», mormoro. «Non ho sentito cosa hai detto». Lo guardo e dico: «Andiamo, ci aspettano a tavola. Devono essere arrivati gli zii». Mettendo un punto alla conversazione e portando a termine questo breve e faticosissimo incontro. Poi siamo seduti in un grande tavolo al centro della sala e ci siamo quasi tutti. Io, mio padre, mio fratello Stefano, la sua nuova fidanzata Priscilla, mio zio Nando, mia zia Zena, mio cugino Giorgio, la sua nuova fidanzata Sabrina e mio cugino Gian Mario. All’appello mancano, oltre ovviamente a Cristina, mio cugino Alberico, con l’altra ala della famiglia da lui a Forte dei Marmi, e Betta, la moglie di Giorgio, o forse dovrei dire ex moglie a questo punto, dato che le cose tra loro sembra vadano sempre più di merda. Sabrina ne è la prova vivente. Nessuno parla di niente in particolare e nessuno sembra particolarmente allegro, io almeno no. Mio padre racconta che uno dei suoi soci in affari, il dottor Arditi, è appena morto di cancro quando mio fratello mi riscuote dal trance versandomi un altro bicchiere di champagne. Lo zio Nando racconta un paio di barzellette che non capisco e chiede a mio padre quanto si fermerà in Italia.

Osservo in lontananza mio padre, elegante e inarrivabile. Vorrei vomitargli addosso tutta la merda che ho dentro ma alla fine lascio perdere e guardo fuori dalla finestra, tutto imbastito, il vento freddo che spazza le foglie del giardino

Il pranzo misericordiosamente finisce. Arriva il cameriere. Gli dico niente dolce. Evito per quanto posso di guardare in faccia mio padre, continuando a essere sensibilmente innervosito per questa storia dell’obbligo di doverlo vedere per forza a Natale. Mi passo continuamente la mano nei capelli, con una voglia disperata di un po’ di coca, che tra l’altro ho nel taschino interno della giacca, o di qualcosa, qualunque cosa mi aiuti a sopportare questa interminabile due giorni sul lago. Quando riesco a estraniarmi completamente finalmente capisco che alla fine tutto si riduce a un ragazzo di 19 anni con la camicia oxford Ralph Lauren che ha bevuto troppo champagne, seduto a tavola tra i propri parenti, che spera, in cuor suo, di non dover più passare un pranzo come questo per tutto il resto della vita. Sulla strada verso casa, a Moltrasio, schiaccio la faccia contro il finestrino della Mercedes ultralunga di mio zio Nando e guardo fisso le luci delle ville a picco sul lago mentre mia zia Zena, adagiata di fianco a lui al posto del passeggero, si è addormentata con ancora la pelliccia addosso. Poi quando il cancello si apre e la macchina entra nel viale che porta al garage, mio zio schiaccia un bottone che chiude il cancello e io vorrei auguragli buon Natale, ma non mi vengono le parole, così rimango in silenzio. La mattina dopo nella villa sul lago è il giorno di Santo Stefano e io sono fatto di coca. Per Natale ho ricevuto da mio fratello un paio di guanti e una cintura, entrambi di pelle e entrambi Giorgio Armani. I miei zii mi hanno regalato una costosissima agenda rilegata in cuoio con sopra inciso lo stemma di famiglia. «Perché ti piace scrivere», mi hanno detto, ed effettivamente è da quando ho 15 anni che scrivo tutti i giorni una specie di diario che magari, chissà, un giorno diventerà qualcos’altro. Osservo in lontananza mio padre, elegante e inarrivabile. Vorrei vomitargli addosso tutta la merda che ho dentro ma alla fine lascio perdere e guardo fuori dalla finestra, tutto imbastito, il vento freddo che spazza le foglie del giardino.

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Il lago di Como (Getty Images).

Natale 2022. Il pranzo. Villa d’Este. Cernobbio. Ventitré anni dopo. Il ristorante La Veranda, situato all’interno dell’Edificio del Cardinale, offre un magnifico panorama sui giardini e sul lago. Le sue ampie vetrate accentuano l’impressione di essere immersi nel parco. Io e mio fratello siamo seduti a un tavolo, uno di fronte all’altro, ci dividiamo una bottiglia di acqua minerale S. Pellegrino e ho come un déjà-vu. Natale sul lago, faceva sempre un gran freddo a Natale sul lago. Il programma per molti anni quando ero piccolo è stato sempre il seguente: cena del 24 a casa nostra, in Via Amedeo d’Aosta, con conseguente apertura dei regali a mezzanotte. Giornata del 25 a Moltrasio dagli zii e i cugini e 26 trasferimento per il resto delle vacanze a Palazzo Fidia, a casa di mia nonna con mia zia Pia e mia cugina Laura.

Scendono tutti gli invitati. Le donne, tra tacchi e gioielli, sono elegantissime. Gli uomini, perfetti, nei loro abiti blu. Dietro di loro il lago, nero da dar fastidio. Sarebbe uno scatto perfetto se solo avessi voglia di tirare fuori il telefono dalla tasca e fare una fotografia

«Cosa ricordi dei natali della tua infanzia, brother?», gli chiedo. «Ricordo più che altro che eravamo due famiglie, i cugini e noi, con padri e madri. Ricordo che lontano però c’era questa specie di autorità assoluta che era il nonno Gerolamo, che tutti, compreso il papà, chiamavamo zio. Sia nostro padre, che la zia e lo zio Nando pure avevano sopra di sé questa figura, questa persona, il cui potere in termini familiari era illimitato. Il giorno di Natale si trascorreva da lui e dalla zia Zhora nella loro tenuta al mare, ai Piani d’Invrea e il giorno dopo ci si trasferiva qui, a Moltrasio, fino alla fine delle feste». «Io non l’ho mai conosciuto, è morto prima che nascessi, ne porto solo orgogliosamente il cognome, ma ogni tanto mi domando, chissà qual era il rapporto che aveva lo zio con voi nipoti? Come sarebbe stato con me?». «C’era affetto, assoluto rispetto e poi, sai, l’atteggiamento dei nonni, in fondo, è sempre, come dire, di mediazione con i genitori, a vantaggio dei nipoti. Se penso alla mia infanzia la morte dello zio Giomino è coincisa con l’inizio dei guai. La separazione dei miei, il collegio e tutto quello che è successo dopo». «Umanamente che tipo era?». «Un tipo duro, all’antica. Il papà lo paragonava spesso a Hindenburg, il generale tedesco della Prima Guerra mondiale. Di lui io ricordo principalmente che era sempre molto occupato. Non ti faceva mai fretta ma ti riservava sempre poco tempo». Poi la conversazione si interrompe di scatto, mio fratello diventa scostante, non ha più voglia di parlare. A un certo punto Priscilla ci raggiunge, si avvicina al nostro tavolo, dicendoci che è il momento di alzarci e raggiungere gli altri a pranzo e poi si allontana. Mio fratello non parla più, io continuo a provare a intavolare una conversazione e gli racconto dei fantastici regali che mi ha fatto Ofelia per Natale: un cappello a tesa larga blu cobalto, delle cuffie stratosferiche, la giacca doppiopetto che indosso, un paio di scarpe Derby nere parecchio eleganti, oltre a un sacco di altra roba che evito di elencargli per non rischiare di annoiarlo. Poi mio fratello mi chiede quando arriveranno gli zii e se, a tavola, ci sarà anche nostro padre e io non so cosa rispondere.

Era un Natale molto strano. Dei presenti in quella stanza siamo rimasti in pochi. Cristina sarebbe morta poco tempo dopo e negli anni se ne sarebbero andati, uno dopo l’altro, anche gli zii, Nando e Zena. Oltre ovviamente a mio padre. Se aggiungo che anche Stefano e Giorgio sono vivi per miracolo, e che nemmeno la villa di Moltrasio c’è più, il quadro è completo

Di colpo nell’immenso parco dell’hotel si crea improvvisamente un po’ di trambusto. Una in fila all’altra si parcheggiano una Mercedes blu, una Maserati Levante, una Tesla Model S, una Toyota Yaris. Scendono tutti gli invitati. Le donne, tra tacchi e gioielli, sono elegantissime. Gli uomini, perfetti, nei loro abiti blu. Dietro di loro il lago, nero da dar fastidio. Sarebbe uno scatto perfetto se solo avessi voglia di tirare fuori il telefono dalla tasca e fare una fotografia. Durante il tragitto che mi separa dal tavolo dove eravamo seduti a quello dove pranzeremo tutti assieme chissà perché, mentre cammino, anch’io elegantissimo in doppiopetto e cravatta, con un’aria disperata, penso a un Natale di tanto tempo fa, a casa a Moltrasio, con i miei zii, i mei cugini e mio fratello. Flirtavo con mia cugina Cristina, della quale ero perdutamente innamorato, e la fissavo lascivo mentre, davanti alla tv, come da tradizione, gli altri recitavano a memoria le battute di Vacanze di Natale dei Vanzina che qualcuno aveva messo su poco prima in vhs. Indossavo un paio di jeans sdruciti, un vecchio maglione blu in shetland e sotto una polo Ralph Lauren da rugby a grosse righe blu e rosse. Poteva essere il 95 o al massimo il 96, perché ricordo con esattezza che papà era ancora latitante. Io avevo i capelli in disordine e ogni tanto uscivo in giardino a fumare una sigaretta di nascosto con mio cugino Gian Mario e provavo a chiamare Nicole con il telefonino. Era un Natale molto strano. Dei presenti in quella stanza siamo rimasti in pochi. Cristina sarebbe morta poco tempo dopo e negli anni se ne sarebbero andati, uno dopo l’altro, anche gli zii, Nando e Zena. Oltre ovviamente a mio padre. Se aggiungo che anche Stefano e Giorgio sono vivi per miracolo, e che nemmeno la villa di Moltrasio c’è più, il quadro è completo. Nell’aria quel profumo di decadenza che piace a tutti, sembra di essere, ancora una volta, dentro un libro di Bret Easton Ellis. Poco dopo a  tavola, tra gli esagerati addobbi di Villa d’Este che quest’anno sono da capogiro: 150 alberi di Natale, 56.025 meline rosse e 22 mila mele d’oro, 5 km di festoni verdi e 5 mila rami di bacche rosse, siamo seduti in 14. Nel mucchio, oltre a me e Ofelia, a mio fratello Stefano e a sua moglie Priscilla, a mio cugino Giorgio e sua figlia Sveva, a mio cugino Gian Mario, potete riconoscere: i genitori di Ofelia, Dudù e Gigliola, sua sorella Cleopatra e il suo fidanzato Bob, suo fratello Roffredo insieme alla fidanzata bulgara Zorny, con in braccio l’ultimo arrivato in famiglia, il piccolo Nicholas, che ha appena compiuto un anno. Quando il cameriere porta le bottiglie di vino è il segnale che il pranzo può cominciare. Sì, buon Natale anche a voi.