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La stringo forte, pensando fra me e me, che il mio problema è stato che forse, prima di incontrarla, non ho voluto mai bene a nessuno, a parte a mia zia Pia. E che non vorrei essere in nessun posto al mondo ora se non qui. Con lei. Il racconto di Natale di Tag43.

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Milano 30 marzo 2006. Maria Pia, già malata da tempo, trascorreva le giornate nel piccolo ma delizioso salottino della sua casa milanese; un prezioso tappeto ormai sdrucito, la tv sempre accesa e sul tavolo la foto della sorella Renata, la cui morte precoce aveva segnato, irrimediabilmente, le sorti dell’intera famiglia. Affrontava il proprio male con estrema dignità e nonostante tutto il primo pensiero che aveva ogni mattina appena apriva gli occhi era per Andrea, quel nipote un po’ scapestrato che le aveva lasciato sua sorella e che lei aveva accudito come un figlio, fin dal principio. Il giorno del suo funerale, nella minuscola cappella dell’ospedale San Giuseppe in via San Vittore a Milano, ci sono solo i parenti stretti. Il cielo è grigio, quasi nero e le nuvole deformi sembrano abitate da mostri.

Laura, la figlia, siede in prima fila con un’amica, Alessandra Lamberti Bocconi, discendente da una nobile e antica famiglia. Le due sono inseparabili da anni ormai e l’affetto che provano l’una per l’altra è qualcosa di non catalogabile, di unico. Un sentimento che si percepisce anche osservandole da lontano, con gli occhiali da vista e i volti tirati. Subito dietro, una di fianco all’altra, Lidia e Amelia, le sorelle maggiori. Amelia, arrivata aggrappandosi al braccio del figlio Luciano, pare fatta d’aria e sul punto di dissolversi. Lidia, accompagnata dal genero Giorgio, ha gli occhi umidi, le guance rigate dalle lacrime e i capelli che le scendono come viene, pur non diminuendo affatto l’eleganza di una donna da sempre considerata la più bella della famiglia. Quella mano lunga, magra e appena un po’ tremula è stata l’ultima cosa che Maria Pia ha toccato in vita. Andrea, loden blu e camicia bianca, guarda fisso davanti a sé ancora incredulo. Una ragazza vestita di nero gli tiene la mano cercando di sostenerlo. Allegra, ha voluto esserci a tutti i costi, anche se ultimamente le cose tra loro vanno da schifo non se l’è sentita di lasciarlo solo in un giorno così doloroso. Andrea ha lo sguardo assente, tanta voglia di piangere e urlare, durante tutta la cerimonia non cambia mai espressione.

il racconto di Natale su famiglia, morte e solitudine
Piazza Duomo (Getty Images).

Luciano, l’unico presente tra gli altri nipoti, siede da solo dietro a tutti. Polacchini beige, giacca grigia e cravatta blu scuro, come un qualsiasi giorno di lavoro. Probabilmente pensa a tutte le bare accompagnate al cimitero, compresa quella di suo padre Ezzelino, di sua nonna Maria, di sua zia Renata. Oppure pensa all’ultima volta che ha visto sua zia Pia, quel pomeriggio nello studio di quel notaio in Foro Buonaparte, e su come fosse contento per lei e per quella cospicua parte di eredità che presto le sarebbe arrivata e che invece non si godrà mai. Il tutto si conclude formalmente quattro giorni dopo. È sabato mattina e il sole batte fisso sul piazzale del Cimitero Monumentale. Maria Pia riposerà qui, assieme a sua madre e a sua sorella Renata, finalmente in pace.

Milano 7 maggio 2006. Notte insonne. In mutande e polo rugby Ralph Lauren, più Arsenico di Lupin, guardo fuori dalla mia finestra affacciata all’ultimo piano del mondo. I pensieri sbattono l’uno contro l’altro a una velocità supersonica per la dissestata scatola cranica. Corso Concordia è deserto, le musiche sono dei Doors. Poi mi viene in mente qualcosa, apro un cassetto in cerca di un foglio e rovistando incappo in uno Swatch da donna blu, dimenticato lì da chissà quanto tempo. Lo vedo ed è come ricevere una pugnalata in mezzo alla schiena. Resto fisso, immobile, senza fiato. La calda e suadente voce di Jim Morrison si diffonde per la stanza… when the music is over… e non posso ancora credere che mia zia non ci sia più. Così rimango con il suo orologio in mano, come un ebete, e immediatamente vengo catapultato di colpo sotto i bombardamenti, tra i palazzi in rovina mentre tutto brucia intorno a me.

Lucilla vomita stronzate facendo muovere le sue labbra che sembrano velluto di Borgogna. Vorrei alzarmi, andarmene, ma mi trattengo mentre mi fa una dettagliata analisi psicologica che mi provoca forti accenni di nausea che controllo a malapena

Una voce mi rimbomba nella testa e ripete incessantemente: «TU SEI SOLO». Dal giorno del funerale Allegra è scomparsa di nuovo, non più un messaggio né una telefonata. Nada, nisba, niente. Lucilla invece, appena saputo cos’era accaduto, ha provato un tentativo di riavvicinamento e così ultimamente ci siamo visti parecchio, fino a pochi giorni fa, seduti insieme ai tavolini di marmo de La Belle Aurore, locale chic ma radicale, dove tutto è naufragato nuovamente. Capelli sciolti sulle spalle, una felpa arancione con il cappuccio, ai piedi un paio di ballerine orrende. Lucilla vomita stronzate facendo muovere le sue labbra che sembrano velluto di Borgogna. Vorrei alzarmi, andarmene, ma mi trattengo mentre mi fa una dettagliata analisi psicologica che mi provoca forti accenni di nausea che controllo a malapena. I giorni passano ma ho ancora in testa le frasi di Lucilla, penso ala sua finta comprensione, penso ai suoi giudizi mascherati sottoforma di consigli stupidi, penso alle sue idee, a tratti offensive. Ventisettenne smorfia da copertina Lucilla vive protetta sotto-vetro dal suo mondo di plastica, si medica l’anima con lo yoga o con la meditazione e crede di avere una esatta percezione della realtà anche se non si rende minimamente conto che l’ambiente privilegiato nel quale è cresciuta l’ha inevitabilmente condizionata. I viaggi da piccola in giro per il mondo tra Club Med e hotel a cinque stelle, quelli con le amiche querule dopo il liceo tra ostelli e campeggi. Bali, l’Irlanda, l’università a Parma alla facoltà di Psicologia, l’Erasmus, il fidanzato spagnolo e la tesi di laurea di stampo anarchico. Lucilla guarda il mondo seduta comodamente tra i prati e le villette identiche una in fila all’altra nel suo “villaggio felice” alle porte di Milano. Ogni tanto si lava la coscienza e magari lavora come cameriera a Le Trottoir. Se vuole fuggire per brevi periodi, d’inverno va a Courmayeur, d’estate a Sanremo. Ogni tanto sentenzia, anche inconsapevolmente, non pensando alle enormità che il suo cervello da neo-psicologa partorisce.

Volevo la levigatezza idilliaca della mia vita da moccioso, o più precisamente la promessa mantenuta di quella vita

Quando ero ancora giovane, più o meno cinque mesi fa, il giorno di Natale, su quel ramo del lago di Como, ricordo di aver fatto riflessioni simili a quelle di questa sera. «TU SEI SOLO» mi ripetevo, mentre fumavo un joint in solitudine sul terrazzo della villa di Moltrasio e tutti, compreso mio padre, i miei zii, mio fratello e i mei cugini, stavano tutti attentissimi nel non entrare in contatto con me. Ricordo che quel Natale non ero in grado di interpretare i loro falsi sorrisi, che il mio cuore continuava a battere, anche se con difficoltà ed ero veramente esausto e apatico. Per farmi coraggio continuavo a ripetermi che in fondo me l’ero sempre cavata, che ero un bravo deejay, che mi piaceva scrivere, che a letto ci sapevo davvero fare, che avevo dei buoni geni, che Andrea andava forte; ma sul terrazzo della villa di Moltrasio quel giorno a Natale ho cominciato a dubitare semiseriamente di tutto. Avevo bisogno di qualcosa per alleviare la paura, ma non volevo tornare a quel mondo. Volevo la levigatezza idilliaca della mia vita da moccioso, o più precisamente la promessa mantenuta di quella vita. Volevo un’altra possibilità, ma riuscivo a esprimere quel desiderio solo a me stesso e non reagivo perché non potevo. Ero ancora giovane. Ero ancora brillante. Ero ancora convinto della mie possibilità. Non era tutto perduto. Sapevo ancora districarmi tra i problemi. Ero foderato di kevlar.

Ho 26 anni e sono un bambino con la testa imbottita da troppe lezioni. «Morte alla gerarchia!», urlavo fra me e me, quel pomeriggio, il giorno di Natale, sul terrazzo della villa di Moltrasio

E Allegra? (dov’erano finiti gli orgasmi non appena la penetravo? E le notti passate ad osservare il suo volto mentre dormiva?). Da piccolo avevo sognato qualcosa di assai diverso da quello che la vita mi stava offrendo. Marcire dietro al bancone di un bar. (anche se non lo sapevo in realtà quel periodo non è che fosse poi così nero… innanzitutto mia zia Pia era ancora viva, non avevano ancora ipotecato l’appartamento in via Mozart dove vivevo e di tanto in tanto, durante le serate in discoteca, facevo capire a qualche minorenne di avere un po’ di roba da fumare, e allora strafatto mi facevo trascinare in bagno dove provavo a rianimarmi con droga e sesso orale, cosa che richiedeva una certa dose di pazienza).

Un tempo avevo 16 anni, mio padre era stato appena arrestato e l’impressione era che le uniche scelte possibili fossero: la disperazione, il suicidio, il sorriso. La disperazione di un destino finito in partenza, il suicidio come fuga e il sorriso come strategia di sopravvivenza. Escluso il suicidio la disperazione costituiva allora l’unica via praticabile. E fu da quella disperazione che scaturì il sorriso. «Non potendo più fare nient’altro divertiamoci», mi ripetevo e così di conseguenza sentivo crescere in me stesso l’odio per il borghese, per le sue convinzioni, per il suo meschino benessere. L’odio incondizionato per tutta la mia famiglia, per l’ambiente dal quale provenivo. Ho 26 anni e sono un bambino con la testa imbottita da troppe lezioni. «Morte alla gerarchia!», urlavo fra me e me, quel pomeriggio, il giorno di Natale, sul terrazzo della villa di Moltrasio.

24 dicembre 2021. «Io devo andare», dice. Io mi sto appena svegliando, gli occhi socchiusi contro la luce che inonda la camera da letto. Le tapparelle sono state tirate su e lei gira per la stanza in mutande e reggiseno. «Che ora è?», chiedo. «Quasi mezzogiorno, sono in ritardissimo». Cerco di afferrarla, tentando di farla tornare a letto. «Piantala Andrea, devo andare». «Perché? Chi devi vedere?». «Mia madre», borbotta, «Quella fuori di testa di mia madre, cazzo». «Cosa dovete fare?». «Niente, le solite cose, c’è da organizzare il pranzo di domani. Il solito. Ti chiamo più tardi». «Io andrò al cimitero, ho voglia di andare a trovare mia zia». «Stai bene?», chiede. Per tranquillizzarmi mi bacia sulla bocca. «Ci vediamo dopo», dice, accarezzandomi il volto, e io le metto una mano sul culo e la tiro verso di me sul letto e premo la faccia sulle sue cosce e inspiro e cerco di rovesciarla ma lei mi allontana dolcemente. Così scosto le lenzuola mostrandole la mia erezione, e lei cerca di sdrammatizzare alzando gli occhi al cielo e poi si tira su e si dirige verso il bagno. Mentre esce dalla stanza io afferro l’iPhone sul comodino e inizio a fotografarle il culo.

Mi guardo intorno e penso che in questo mondo nulla mi riguardi davvero a parte Ofelia. Penso a questo, mentre pedalo verso il cimitero e cerco di abbozzare nella mente una storia per un racconto di Natale sul quale mi sono arenato

Due ore più tardi in sella alla mia bici Rossignoli color blu diplomatico osservo i cartelloni pubblicitari digitali di Piazza Gae Aulenti che splendono nella foschia grigia e le stelle di Natale allineate lungo le aiuole verso la Biblioteca degli Alberi stanno morendo. Guardo in alto e il mondo diventa un film di fantascienza tra i grattacieli futuristici e la gente, intenta a fare le ultime compere, che si muove nevrotica avanti e indietro per la piazza, con la mascherina in faccia. Mi guardo intorno e penso che in questo mondo nulla mi riguardi davvero a parte Ofelia. Penso a questo, mentre pedalo verso il cimitero e cerco di abbozzare nella mente una storia per un racconto di Natale sul quale mi sono arenato. Ciò che viene fuori è per metà vero e per metà inventato. Un tempo amavo il Natale, da piccolo lo attendevo tutto l’anno poiché era il culmine del periodo che andava dal giorno del mio onomastico, il 30 novembre, a quello del mio compleanno, il 20 gennaio, in cui potevo chiedere quello che volevo. Ricordo il gigantesco albero nel principesco appartamento di Via Amedeo d’Aosta, i pranzi del 25 al lago con i cugini Serbelloni, la foga con cui scartavo i regali il giorno di Santo Stefano a casa di mia zia, che trovavo sotto l’albero in salotto, ed erano tutti per me. Poi le cose sono cambiate e la serenità è diventata un concetto astratto, quasi impossibile da raggiungere.

Un’ora dopo sono davanti alla tomba di famiglia al Monumentale e immediatamente, quasi inconsciamente, metto in atto delle antiche tecniche che conosco bene, per attenuare il dolore. Fisso la lapide con scritto sopra il nome di mia zia per qualche minuto. Prima di andarmene sposto lo sguardo su quella di mia madre subito di fianco. Esco dal cimitero, mi fa male il petto, il sangue mi pulsa nella testa e forse ho fumato troppo o forse ho semplicemente il Covid, mentre canticchio tra me e me qualcosa che mi aiuti a soffocare questa sensazione di soffocamento e mi viene in mente un pezzo dell’ultimo album di Marracash che sto ascoltando ossessivamente in cuffia da giorni intitolato Cliffhanger.

Non posso fare altro che aspettare l’appuntamento con Ofelia e dato che non so dove andare mi dirigo verso la libreria Adelphi di via Brentano perché voglio assolutamente comperare Zia Mame di Patrick Dennis, di cui ho letto da qualche parte, che racconta la storia di un ragazzino di 11 anni nell’America degli Anni 20, che viene affidato dopo la morte del padre a una zia di New York. E ironia della sorte forse il Natale più bello degli ultimi anni l’ho trascorso proprio a New York, con Ofelia, a pranzo io e lei, imbacuccati in enormi giacconi Woolrich, in un rancido Daily vicino a Union Square, a mangiare patatine fritte e pollo marcio. Forse uno dei pranzi più belli della mia vita.

La stringo forte, pensando fra me e me, che il mio problema è stato che forse, prima di incontrarla, io non ho voluto mai bene a nessuno, a parte a mia zia Pia, e che non vorrei essere in nessun posto al mondo ora se non qui. Con lei

La vigilia poi ha il suo giusto epilogo e tutto si conclude con me e Ofelia seduti in platea, uno di fianco all’altra, sulle poltroncine rosso porpora del Teatro La Scala mentre assistiamo al terzo atto de La Bohème che ho voluto assolutamente vedere, anche se di opera non ne capisco un accidente, solo perché la scorsa settimana mi è venuto in mente che Dan Aykroyd in Una poltrona per due quando viene arrestato, ne ha due biglietti nella giacca. «Rivedere quest’opera mi ha ricordato un po’ i tempi quando ci siamo conosciuti e vivevi in quello squat in Corso Concordia», mi dice Ofelia, stringendomi il braccio all’uscita. E vorrei rispondere che io l’ho vissuta la vera bohème ma alla fine non lo faccio e la stringo forte, pensando fra me e me, che il mio problema è stato che forse, prima di incontrarla, io non ho voluto mai bene a nessuno, a parte a mia zia Pia, e che non vorrei essere in nessun posto al mondo ora se non qui. Con lei. E di colpo è già Natale.