«Non mi pento di nulla»

Redazione
30/04/2021

La vendita di asset, le critiche, lo spettro dell'acquisizione Mps. La miopia degli azionisti e gli auguri al successore. In una lettera rinvenuta nel suo ex ufficio Mustier cita Edith Piaf e difende i suoi cinque anni in Unicredit.

«Non mi pento di nulla»

Il trasloco risale allo scorso febbraio, ma l’addio l’aveva dato qualche mese addietro, a dicembre, quando aveva visto che il board di Unicredit guardava con sempre più scetticismo alla sua gestione. E soprattutto era stato designato un presidente, l’ex ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che lasciava presagire come l’intenzione del governo fosse quella di andare dritta al matrimonio con il Montepaschi.

La torre Unicredit in piazza Gae Aulenti a Milano (Getty Images).

Come nelle migliori tradizioni, il retaggio del banchiere francese è stato subito accantonato, compresi i simboli (il pupazzetto mascotte dell’alce, le cravatte rosse dei dirigenti) che avevano punteggiato i suoi cinque anni di regno. Qualcosa però è rimasto, ed è stato trovato in un cassetto del suo ex ufficio da una fonte che comprensibilmente vuole restare anonima. Si tratta di una lettera, forse apocrifa. Tag43.it è venuta in possesso di una copia dello scritto e, una volta letta, ha deciso di riproporla ai suoi lettori. Giudicando che, pur non attribuibile con certezza al banchiere francese, il testo potesse in qualche modo riflettere il suo bilancio degli anni passati in Unicredit.

Mustier e il passaggio di consegne a Orcel

“Non, je ne regrette rien”, Non mi pento di nulla. Sono stato il terzo ad in 10 anni cui fu affidato il compito di risanare Unicredit, la seconda banca del Paese. Tre amministratori delegati con esperienze e background professionali molto diversi, e ora arriva a sostituirmi Andrea Orcel, verso il quale ho sincera stima. Ma, come me, è un banchiere d’investimento che farà fatica a comprendere i meccanismi di gestione di una banca commerciale. Anche io, confesso, ci ho messo un po’ a raccapezzarmi. Quello che so è che Orcel cambierà tutta la prima linea di management introducendo fidati collaboratori esperti nella guida di una banca retail. Altro giro, altra corsa, a conferma della tesi che in Unicredit “le hanno tentate tutte”. Auguro al mio successore il successo che merita, sperando che non si riproduca il film già visto soprattutto su finale della mia gestione, la cui trama si nutre di scontri tra capo azienda e Cda con visioni strategiche diverse, quando non totalmente opposte.

Un problema di governance o di cda?

Un dubbio mi assale: forse il problema non sta nella governance ma nel cda? Piuttosto che cambiare amministratori delegati, non sarebbe il caso di pensare di cambiare la cultura del board? Un consiglio d’amministrazione che, per la componente italiana (leggi fondazioni), vorrebbe tornare al vecchio sistema di controllare le scelte da posizioni minoritarie. Un cda che non riesce ormai da anni a dare continuità alle strategie e a programmare in maniera ordinata i pur legittimi cambi di manager. Tutto ciò ha fatto male non solo al valore finanziario della banca, ma soprattutto al morale degli uomini che vi lavorano togliendo l’entusiasmo e lo spirito di appartenenza a un gruppo che da più di un secolo è parte della storia economica dell’Italia. E’ questo forse il compito più difficile che aspetta Orcel, perché qui si tratta di sentimenti e di emozioni, non di M&A e di multipli aziendali. Una situazione che io ha combattuto fino alla fine, e che il mio successore dovrebbe sommamente temere. Quanto a me, il percorso che avevo tracciato e che si sarebbe dovuto completare con il piano Team23 2020-2023 era l’unico percorribile in questa tempesta che sta vivendo il nostro sistema bancario e che avrebbe potuto garantire l’incolumità dei posti di lavoro finora salvaguardati da scivoli, esodi e altre forme di assistenzialismo: renderla pronta a una fusione transfrontaliera per creare un colosso europeo. L’unica via per assicurare a una grande banca di continuare a fare banca in un Paese dove gli istituti di credito di grandi dimensioni, da qualche anno, hanno smesso di sostenere l’economia reale. La cronaca degli ultimi anni, Mps & Co, ce lo ha dimostrato.

Svalutati asset per 13,2 miliardi

Come dicevo all’inizio citando Edith Piaf, non rimpiango nulla dei miei cinque anni di gestione. Ho svalutato asset per 13,2 miliardi determinando una perdita di circa 12 mld di euro. Si trattava essenzialmente di crediti marci che le precedenti gestioni, responsabili della erogazione degli stessi, indicavano, invece, in bilancio come sani. Una manovra che, nonostante iniziali dichiarazioni contrarie, poi anche il collega Carlo Messina di Banca Intesa tre anni dopo ha inserito nel suo piano.

Jean Pierre Mustier e Carlo Messina (Getty Images).

Ho realizzato un aumento di capitale di 13 mld di euro quando la capitalizzazione del gruppo era di 11 miliardi e l’ho fatto assorbire integralmente dai principali azionisti e da investitori istituzionali, in netto contrasto con le politiche di ricapitalizzazione precedenti (altri tre aumenti di capitale dal 2008) che erano state invece indirizzate violentemente e subdolamente verso gli ignari risparmiatori. Con questa manovra ho anche ridotto il potere delle fondazioni che detenevano il controllo della banca. In questo periodo il patrimonio netto è cresciuto del 21% . Parliamo di circa 11 mld di euro. Ma ancora non bastava, perché occorrevano circa 20-25 miliardi per garantire il capitale regolamentare (CET1) e allora l’unica strada, una necessità e non un capriccio, è stata quella di vendere le “galline dalle uova d’oro”. Ho venduto bene, guadagnandoci, le partecipazioni in Fineco, Pioneer, nella polacca Bank Pekao e nella ucraina Ukrsotsbank, le attività di elaborazione dei pagamenti tramite carte di pagamento Ubis (Unicredit Business Integrated Solutions) per l’Italia, la Germania e l’Austria e la partecipazione in Mediobanca. In un solo caso ci ho perso, ed è quando ho dovuto cedere in fretta e furia la nostra sussidiaria turca Yapi Kredi.

In tutti i casi si trattava di asset non strategici. Fineco era una banca indipendente, senza alcuna sinergia con Unicredit, e rappresentava solo un investimento finanziario. Pioneer era una fabbrica di prodotto troppo piccola per andare da sola e quindi tanto valeva puntare sulle sole commissioni di gestioni e Bank Pekao quotava a un valore inferiore a quello di libro e quindi aveva più senso “diluire” la partecipazione al capitale sociale. Coerentemente con il nuovo modello di servizio (riduzione della presenza agli sportelli ed aumento delle operazioni online), ho snellito il costo del personale accompagnando all’uscita circa 40 mila dipendenti e ridotto sensibilmente il costo della logistica chiudendo oltre 1.500 sportelli. Un surplus derivante dalla sciagurata fusione, sollecitata dagli organi governativi (corsi e ricorsi storici), con Capitalia che, voglio ricordarlo, nel 2007 non aveva altra strada se non quella che portava al tribunale e dichiarare fallimento.

Il matrimonio con Mps era una strada obbligata

Ecco perché bisognava stare attenti a dire, così come hanno fatto in maniera molto semplicistica i miei azionisti italiani, dobbiamo fare una acquisizione così come ha fatto il nostro principale competitor Intesa-San Paolo. Perché nel cda che ha accompagnato la mia gestione c’erano alcuni esponenti che non si preoccupavano del capitale della banca. Non si potevano (e non si possono) fare acquisizioni quando il Pil crolla del 10% e il futuro è molto incerto. Certo, me ne sono andato quando ho capito che con l’arrivo di Padoan alla presidenza, il matrimonio con Mps era una strada obbligata. La banca senese ha ancora molte rettifiche sui crediti malati da fare per cui le condizioni che sicuramente porrà anche il mio successore Orcel saranno molto difficili da accettare. E magari lui ha in mente altro: non le acquisizioni domestiche ma, con Unicredit forte di una quota di mercato consolidata del 12%, aspetta un rimbalzo del Pil per effettuare, invece, sempre che azionisti privati, fondazioni e la politica lo consentano, una fusione con un colosso straniero.