Il Comune di Milano ha deliberato che entro il 2024 il traffico cittadino sarà tarato tutto sulla famigerata Zona 30, cioè tutte le strade del capoluogo lombardo avranno questo limite di velocità, questo dopo che non troppo tempo fa si sono superati i 300 km di piste ciclabili dentro il perimetro comunale e l’idea di un cittadino che utilizzi i piedi al posto della macchina si sta facendo sempre più largo. Uno dice, è lo spirito dei tempi, rallentare sarà il mood del futuro, vai di sostenibilità, ecologia, l’uomo che finalmente capisce di essere solo uno dei tanti esseri viventi che abitano il pianeta Terra, non il suo padrone. Zeitgeist, appunto.
In un mondo in affanno anche la musica dovrebbe farsi più sostenibile
Da che esiste la possibilità di incidere la musica, ma probabilmente anche prima, si tende a pensare che non ci sia forma d’arte più immediata, capace di intercettare le traiettorie che l’umanità va prendendo, da Luigi Russolo e i futuristi fino al krautrock dei Kraftwerk, con tutto quello che ci può stare in mezzo. Tanti sono gli esempi di artisti che hanno anticipato o saputo raccontare in presa diretta le evoluzioni, involuzioni e circonvoluzioni del genere umano. Sarebbe quindi presumibile che oggi, mentre il mondo cosciente tira il freno a mano, ipoteticamente prima di parcheggiare per l’ultima volta la propria inquinantissima auto diesel, la musica che gira intorno ne simuli l’andamento, rallentando, guardando a una sostenibilità non solo nei suoni ma anche nella modalità di ascolto, diventi, in sostanza, un tutt’uno con il respiro, magari ancora affannoso, del nostro Pianeta colpito dai cambiamenti climatici.
Sulle principali piattaforme streaming e social imperversano le Sped Up Version
Invece, da una parte si è passati agilmente dal vinile al cd per poi passare, dopo qualche anno di download, alla formula magica dello streaming – ci sono fior di studi che dimostrano come lo streaming incida sul Pianeta anche più di quanto non facesse l’industria discografica con la produzione e distribuzione fisica di cd contenuti dentro custodie di plastica con libretti in carta plastificata – dall’altra, proprio sulle principali piattaforme di streaming, Spotify, Youtube, imperversa, anzi, si impone la nuova moda, molto futuristica in una chiave però tutt’altro che bucolica, di iperaccelerare canzoni già esistenti, le così dette Sped Up Version. Certo, a fianco delle versioni velocizzate ne esistono di rallentate, per altro il metodo usato è esattamente il medesimo, già in voga da parte di dj e producer di musica rap. Si prende un brano e se ne manipola il beat, poi esploso a inizio millennio nel cosiddetto chipmunk soul per mano di Just Blaze e Kanye West (forse dovremmo tirare in ballo anche Alvin rischiando però di risultare sarcastici), ma è lo Sped Up Sounds che al momento imperversa. Cioè, a fare da colonna sonora a noi che scendiamo dalle auto, ci sfiliamo le scarpe e andiamo a piedi sull’erba fresca di brina non c’è Damien Rice o Bon Iver, ma semmai una loro versione a tripla velocità, la voce pitchata, il ritmo che si fa ossessivo.
Così lo streaming ha “schiacciato” la musica
Come se, in questa nuova visione della musica onnipresente – a questo serve in fondo lo streaming, a farci portare ovunque la musica, poco conta che l’ascolto sia ovviamene solo di sottofondo, distratto, e che sia di bassa qualità, troppo spesso fatto con device che alla musica non sono preposti, leggi alla voce “smartphone”. Poco conta che proprio in virtù di questo ascolto distratto e da sottofondo, le produzioni si siano uniformate a standard sempre più bassi, per non dire delle composizioni, tarate sui device più che sull’ispirazione, come se i grandi compositori avessero dovuto scrivere musica su spartiti che ospitavano pentagrammi incapaci di raccogliere tutte le note, ma solo una minima porzione. Perché questo accade se si scrive pensando allo streaming: si toglie dinamica, si tolgono le frequenze alte come le troppo basse, tutto diventa medio e schiacciato. Poco conta tutto, la distrazione è molto spesso associata alla fretta, e oggi la colonna sonora così si manifesta, frettolosa. Come se l’ascolto fosse di sua natura ormai divenuto bulimico, e in quanto bulimico più interessato alla massa, alla quantità, che alla qualità, e pronto poi a essere vomitato per lasciar spazio ad altra quantità.
Così gli “utilizzatori finali” stravolgono il lavoro degli artisti
Curioso che, in questa nuova visione del mondo, parlo del mondo sonoro, sia proprio l’assenza di rumore, quello che superficialmente si associa al fruscio della puntina dei vecchi giradischi, in realtà appannaggio della profondità del suono analogico, ad aver reso la musica così piatta. Fatto sì che si sarebbe potuto ricondurre a una visione rallentata e anti-industriale del mondo: via lo smog acustico, largo a un ritorno alla natura. Invece ci troviamo di fronte a uno scenario quasi steampunk, dove da una parte si guarda a quello che per anni ci è stato raccontato come progresso manco fosse stato tutto da buttare nell’indifferenziata, dall’altra la velocità cui ci siamo abituati con il famoso click fosse diventata il battito cardiaco del nostro vivere. Questo, ovviamente, apre anche uno scenario inquietante per quel che riguarda chi, in fondo, all’arte ha fornito negli anni la materia prima, gli artisti, i cui pezzi vengono spesso stravolti non da altri artisti, ma da quelli che in altro ambito sono stati definiti non certo senza fantasia “gli utilizzatori finali”, nello specifico il pubblico. Esiste una questione irrisolta che tira in ballo i diritti d’autore, fatto già entrato in scena ai tempi del boom del rap, quando a essere usati erano sample di altri dischi, utilizzati per fare nuove basi, con la differenza che il mondo dei social, TikTok su tutti, dove oggi la musica sembra destinata a indirizzare tutte le proprie attenzioni, Biden permettendo, risulta evidentemente ambiguo.
Nuova vita per vecchi brani e boom di nuove hit
Forse per questo gli artisti, almeno una parte di loro, sembrano intenzionati a cavalcare la cosa, facendo in proprio versioni velocizzate dei propri brani, pensiamo a Lights di Ellie Goulding o Bad Habits di Steve Lacy (no, non quello Steve Lacy lì, quello assai più innovativo), e in qualche modo mettendo il piedino nell’hasthag del momento #spedupsounds. Che questo fenomeno abbia permesso e permetta anche a vecchi brani di ritornare in sella, o di arrivarci per la prima volta – TikTok ha permesso anche il botto dei Maneskin, senza dover neanche accelerare niente – è qualcosa che difficilmente porterà a una inversione di rotta, con buona pace dei titolari dei diritti, di chi produce musica in un determinato modo perché è così che pensa andrebbe ascoltata e, perché no, di chi vorrebbe semplicemente ascoltarsi una musica più in sintonia con il ritmo del mondo che ci stiamo apprestando a vivere. Un mondo in cui si va a piedi, senza dover andare in ufficio e, magari, pure senza la musica ascoltata male su un apparecchio pensato per fare telefonate.